LA BELLEZZA RESISTE E RISPLENDE SUL MALE
A COME ANDROMEDA
di Titti Preta
A come alfa. Alfa come aner, andros, ovvero uomo. E medomai vuol dire “darsi pensiero”. Andromeda: colei che pensa come un uomo.
A come Andromeda, mitico sceneggiato di Vittorio Cottafavi, primi anni ’70, rigorosamente in bianco e nero. L’eroe è Luigi Vannucchi, Andromeda è un’algida Nicoletta Rizzi (che prese il posto di Patty Pravo), l’aliena sintetizzata in laboratorio da un’intelligenza artificiale superiore che, come Skynet in Terminator, potrebbe dominare il mondo…se lei, frutto di una tecnologia avversa all’uomo e che sa creare il DNA, non si gettasse da una scogliera, in un finale aperto. Un tuffo coraggioso alla maniera saffica dalla Rupe di Leucade per ritrovare la libertà, non un rinunciatario suicidio, perché Andromeda è colei che pensa da uomo. Non più la ragazza incatenata seminuda a una roccia marina in attesa di un salvatore. Non più favole belle che ieri illusero e oggi ci illudono, o Ermione.
Il mito di Andromeda è un racconto serio, va svestito da romanticismi di maniera, come si ravvisa nei quadri in cui la principessa etiope ha sempre l’incarnato chiaro, finanche in Gustave Dorè.
Il mito ha una sua sacralità, è racconto teosofico per pochi mysthoi che devono stare a bocca chiusa. Tacere, ascoltare, capire. Facciamolo.
Andromeda è il prototipo della donna sola o donna-isola. Come l’eroina di una tragedia, vive stoicamente la punizione inferta per colpa della madre Cassiopea, che in nome di una vanitas vanitatum ha osato sfidare Anfitrite e le Cinquanta Nereidi, dicendo di esser più bella di loro. E per punizione verrà sottratta dell’altrettanto bella figlia. Una tracotanza punita in maniera indiretta, come per Ifigenia.
Di Andromeda e del suo mito interessante si accorsero in molti: Sofocle e soprattutto Euripide, la cui tragedia Andromeda, oggi perduta, è citata nelle Rane di Aristofane (in cui a vincere il certame è Eschilo): questo a prova della sua fama e diffusione.
La tragedia euripidea è del 412 in piena Guerra del Peloponneso… e la cupa figurazione del mostro marino doveva evocare quello di un ben altro pauroso mostro: il bellum.
Un’eroina sfortunata, la nostra, che sconta la hybris materna, ma che in Euripide assurge a una forma di liberazione.
Come l’Andromeda televisiva. Infatti nello sceneggiato della Rai il buon eroe Vannucchi non ce la fa a salvarla, a differenza di Perseo, fresco di vittoria su Medusa, che si spinge ai confini del mondo, avvista la fanciulla parecchio sfortunata e in un baleno la salva dalle fauci della belva marina. Come dire: veni, vidi, vici. E il premio è appunto lei, la donna-trofeo, purché bellissima: il dono di cotanta fatica, la passiva Andromeda sottratta al mostro che incute terrore e tutto deturpa (la guerra, secondo Euripide, mentre la ragazza è l’Attica).
Un’Andromaca che piange e i cui lamenti vengono ricantati da un’altra infelice come lei, la nympha Eco che sa solo ripetere quanto detto da altri.
Perseo salva Andromaca, gli eroi fanno sempre così, e la donna occupa la casella assegnatale e diventa sua sposa, le donne fanno sempre così. I miti non si trasgrediscono, devono educare a ciò che si deve o non si deve fare. Ma il ruolo di tremula puella scricchiola già col nome che ha, e se n’è accorto il cantante Alessandro Mahmood quando scrive Andromeda per Elodie, il cui sguardo da Medusa seduce e pietrifica oggi. Una ballata post-romantica: La mia fragilità è la catena che ho dentro, ma se ti sembrerò piccola non sarò la tua Andromeda.
Piccola e fragile, Andromeda che rinuncia alla propria libertà per espiare colpe altrui: è un paradigma che oggi alle donne va stretto, ma in antichità era la paideia delle brave ragazze. Trasgredita però questa storiella dagli stessi Antichi, come appunto Euripide, come Mamhood oggi. E, soprattutto, dal più caustico di tutti: Luciano di Samosata che nei Dialoghi marini ci propone la “sua” Andromeda. Una voce nuova a un’eroina del passato, un po’ come nei dialoghi impossibili di Eco, Camilleri, Sanguineti. Perché i miti vanni riscritti, ricreati, riletti. E sempre trasmessi e reinventati.
Punita per l’oltraggiosa gara tra mondo umano e divino, un vero sacrilegio, un’immodestia immonda da lavare col sacrificio di una virgo innocente. Innocente che però non indietreggia di fronte al rito che diremmo oggi assassinio. Che sa temporeggiare davanti al mostro marino finché il principe azzurro non la salva dalle sue grinfie. Un Perseo che nella bisaccia reca ancora la fumante testa di una ribelle da decapitare: Medusa.
E, se non bastassero le regali nozze, arriva il mondo delle stelle a sublimare Andromeda.
Ovidio, Manilio, Luciano. Euripide, i pittori e la tv e la musica ci riportano Andromeda e le troppe donne assise in cielo dopo tanto patimento, in attesa di una redenzione del tipo “per aspera ad astra”. Uno schema fisso che oggi non resiste e non incanta più.
Andromeda, stella celeste, meditabonda al pari di un uomo, però. Principessa del cielo, martire in terra. Donna-oggetto o dono, gheras. Fortunata per molti, perché salvata da un eroe bello e impossibile.
Ma il suo nome ci dice molto di più. È nel nome racchiuso il sugo di questa storia. Andromeda pensa come un uomo. E non finirà, forse anche dal cielo, di stupirci e di offrirci spunti per nuove riflessioni.