Giuseppe Berto: un intellettuale “contro”visto da Maria Concetta Preta (II parte)

images (1) images1964927_10203155953369354_1249421259_nGiuseppe Berto: un intellettuale “contro”visto da Maria Concetta Preta (II parte)

                              

Il giovane Berto. Gli anni segnati dalla guerra.

La giovinezza di Giuseppe Berto fu segnata dalla guerra. Nato in provincia di Treviso nel 1914, gli anni del fascismo, in una famiglia piccolo – borghese, poi la scelta di arruolarsi.  Per 11 anni il giovane Berto, dal ‘35 fino al ‘46, lotta per quella patria che da concreta si farà sempre più astratta. All’inizio è un oltranzista pieno di idealità, imbevuto di dannunzianesimo, com’era tipico per tanti giovani di quel tempo, sostenuti da retoriche patriottiche e da desiderio di gloria.

Con tale forma mentis Berto nel ‘35 parte per guerra in Abissinia. Già nel ’29 era stato avanguardista, quindi giovane fascista e aveva poi aderito ai gruppi universitari fascisti, divenendo capo della Giovine Italia del Littorio, com’era costume allora far cursus honorum. Si era pure iscritto a Lettere a Padova, manifestando simpatia per la cultura umanistica, ma aveva divagato tra caffè e biliardi e siccome il padre non aveva intenzione di mantenerlo, decide di arruolarsi nell’esercito. Fugge dall’ottusa provincia, lascia una famiglia tradizionalista in cui la figura del padre è per lui parecchio ingombrante, come avrà a dire nel Male oscuro.

Il padre era un ex-carabiniere che ha lasciato l’arma per amore ed è divenuto cappellaio. Berto è il maschio di 5 figli contornato da sorelle e lui, il solo di casa che studia, si diploma, ma non viene mantenuto all’università, perciò si arruola. Giovane e baldo, pure bello, imbevuto di retorica patriottica e velleità sostenute dal “Vate” D’Annunzio, sceglie la guerra come strada per affermarsi contro il perbenismo borghese e la “farsa di provincia” che non permetteva il suo sogno di gloria.

Partecipare alle guerra fu per il giovane un inserirsi nella storia, esserne attore, sfidare la morte. Nel ‘39 torna in Italia, con medaglia al valor militare, si guarda attorno, riflette e nel ‘40 scrive l’opera che segna il debutto, la “Colonna Feletti”, una brigata di 150 militi, sorta di diario-reportage pubblicata postuma nell’87 per la Marsilio. Racconti di guerra e prigionia in cui Berto rievoca le vicissitudini militari e riflette sul male universale, dando una chiave di interpretazione morale e non ideologica della guerra. Rivela, aldilà di ogni retorica guerrafondaia e nazionalista, la resistenza della dignità di fronte alla violenza. E’ la delusione del soldatino di provincia di fronte all’impossibilità di sovrastare il male, vi è fine moralismo … e poi la dura critica al fascismo e al massacro della guerra, vista come il Male Universale davanti a cui l’uomo nulla può.

 

Berto e il mondo della scuola: un rapporto da “odi et amo” … meglio scrivere!

Nel ‘40 Berto si laurea in Storia dell’Arte e fino al ‘42 fa l’insegnante ad un istituto tecnico di Treviso, lavoro che non lo soddisferà quasi o nulla.

In effetti sarebbe stato un ottimo insegnante, capace di arricchire i suoi allievi, ma covava nell’animo il desiderio di libertà che mal si coniugava con un lavoro statale e con lo svolgimento di rigidi programmi ministeriali. Perciò decide di lasciare l’insegnamento, il lavoro statale, per instradarsi sulla via della scrittura, a cui si darà anima e corpo: cosa che – lo so bene io – è difficile fare se si insegna e la conciliazione dei tempi scolastici non avrebbe permesso quella libertà di muoversi che lui desiderava per diventare uno scrittore vero e proprio.

Le scartoffie scolastiche non facevano proprio per lui e il chiudersi nel grigiore delle aule di un istituto tecnico non gli permettevano quel volo verso l’infinito che era per lui la scrittura.

Tra ‘40 e ‘41 scrive brevi racconti, come “Il seme tra le spine”, incentrato sull’amore tra un prigioniero e un’infermiera americana, ricorda vagamente “Addio alle armi”.

 

Il periodo della prigionia americana.

Nel ‘42 lo troviamo sul fronte dell’Africa. In Abissinia, ferito a una gamba, quando gli Alleati sfrondano il fronte è ferito a una gamba e fatto prigioniero dagli Americani. Siamo nel ‘43: Berto, deluso nelle aspettative di gloria, è condotto in un campo di prigionia oltreoceano, in Texas ad Hereford, in un campo usato poi per i criminali fascisti. L’avventura della sconfitta, crollate le certezze ideologiche, lo riporta alla scrittura in un momento di inazione, amarezza, noia, riflessione. Nella secca e pietrosa prateria texana, nelle baracche ha la fortuna di incontrare compagni di prigionia d’alto lignaggio, intellettuali alto-borghesi come: Gaetano Tumiati, che sarà direttore di Panorama, Dante Troisi, scrittore e Alberto Burri, artista. Sono loro che lo spingono a riprendere la penna in mano, che lo “trascinano sulla cattiva strada della letteratura”.

Dopo l’8 settembre ‘43 gli Americani lo invitano a diventare suddito del governo Badoglio, ma lui ci litiga e decide di non cambiare casacca così viene punito, gli dimezzano il rancho. Affamato e rabbioso, compensa con la scrittura con cui riflette sui 10 anni che vanno dal ‘35 al ‘46, nei quali cosa ha ricavato oltre alle delusioni? Appartiene a quest’anni il progetto di un diario di guerra che diverrà libro nel ‘55: Guerra in camicia nera.

 

Il rientro in Italia. Gli anni del dopoguerra.

1946: è l’ora del rientro in patria, in Veneto. Un’Italia diversa davanti ai suoi occhi di ex-combattente. Un nuovo scenario, fatto di speranza nel futuro e voglia di fare. Si respira ottimismo, c’è ansia di rinascere. B. fa il punto della situazione personale e decide di dedicarsi stabilmente alla letteratura. Tantissimi i fogli in mano, bisogna pubblicare, non solo più scrivere. E inizia qui il rapporto con le case editrici, che per B. sarà spesso conflittuale.

Esce nel 1947 “Il cielo è rosso”, intitolato così dall’editore, mentre per l’A. il titolo era: “La perduta gente”, chiaro tributo all’ Inferno dantesco, libro che lo rivela al grande pubblico. Va inserito nel filone impegnato, anche se viene subito snobbato dalla critica. Ne verrà ricavato un film, del ‘51, diretto da Claudio Gora con Jacques Sernas, Marina Berti (moglie del regista) e la giovanissima Anna Maria Ferrero.

Si apre così il lungo rapporto di Berto col cinema sia come autore che come sceneggiatore. Nel libro – e nel film – si parla dei bombardamenti del ‘44 a Treviso, rasa al suolo.

E’ naturale che lo scrittore all’opera del suo debutto attribuisca un certo spessore usando la sua terra come scenario.

Trieste vive un momento mortifero, radicale, è l’azzeramento dell’umanità. I sopravvissuti sono la perduta gente di un girone infernale, ma non privi di un’esile speranza, incarnata nel personaggio femminile della prostituta, una donna che ha subito come tante violenza ( mi ricorda la Ciociara di Moravia).

In lei è riposto il riscatto, è l’eroina. E’ un mondo in cui aleggia solo il male. Berto si chiede come sia stato possibile che un’umanità colta e civile come quella europea sia finita in una catastrofe anche morale oltre che sociale, politica, civile. Ovviamente include se’ stesso nell’interrogativo.

Sono anni di dura riflessione, di auto-analisi, Berto non fa sconti neanche a se’ stesso. La conclusione è che la guerra cancella ogni valore, azzera la solidarietà e l’affetto. E’ qualcosa di irrazionale, di bestiale, connaturato nell’istinto omicida dell’uomo. Cito la frase di Hobbes: Homo homini lupus est.

  Berto va solo a sfiorare la tematica della Shoah che troverà in Primo Levi il massimo testimone. Ma il male non sta dalla parte dei nazifascisti, di Hitler. Il male è anche negli americani che sganciano l’atomica a Hiroshima e Nagasaki. Però Berto accende una piccola fiaccola di speranza, incarnata nel personaggio femminile, altrove in altri e sempre umili, perché lo scrittore dimostra di amare i “vinti” di verghiana memoria e non rimane impersonale come i veristi: immagina una possibile resistenza, nonostante imperi il male. Basta anche un momento, una testimonianza per rendere meno totalitario il trionfo del male.

 

La Poetica di Berto

In cosa risiede il ruolo dello scrittore? Egli è spesso in polemica col resto del mondo, e Berto lo è e lo sarà sempre. Inoltre sarà continuamente alla ricerca della propria identità, alla ricerca dell’uomo, un po’ come Diogene.

Berto, comunque, si ritiene investito di una alta missione: Scrivere, strumento con cui deve tener viva la speranza. La letteratura diviene arma contro il male, resistenza, coraggio. C’è un senso “cristologico” assegnato allo scrivere, B. si immola sull’altare della conoscenza. Attenzione: Berto non era un vero cattolico, meglio un cristiano. E avremo modo di parlare di quest’aspetto a proposito della figura di Giuda, nell’ultimo romanzo, quello che segna la fine di quest’iter.

Berto dimostra di essere “un autore-contro” sin dall’esordio, di schierarsi contro gli pseudo-valori di una società falsa e ipocrita, una società fasulla che si affida a strumenti consolatori come la religione, vista nel suo aspetto esteriore. B. compie una denuncia radicale della guerra e di chi vi prese parte o non si schierò contro. Nel mucchio c’era anche lui, giovane, inesperto, inconsapevole, figlio di una società sbagliata.

Siamo nella seconda metà degli anni ‘40: Berto sta faticosamente ricostruendo la propria identità.

 

Pubblicazione de “Il cielo è rosso”, un capolavoro ed un successo commerciale e di critica.

Pubblicato tra il Natale ‘46 e il Capodanno ‘47, sarà Leo Longanesi a intitolarlo così. C’è un aneddoto a tal proposito, uno dei tanti che costellano la vita di Berto. Ve lo riporto.

Pare che Berto venne a sapere del nuovo titolo quando lo vide nelle vetrine dei librai! In effetti, rispetto a quello originario, è di gran lunga migliore. Longanesi ben sapeva che il titolo decreta spesso il successo di un libro, così come la scelta della copertina e “Il cielo è rosso” – non sappiamo se grazie al titolo, vogliamo sperare che non sia solo per questo … – diventa un successo internazionale e vince il Premio Firenze nel 1948: il presidente di giuria Pancrazi fu un estimatore della prima ora di Berto, a dispetto della critica.

Il libro entra nella cinquina del Premio Strega, istituito nel II dopoguerra dalla famiglia beneventana degli Alberti, amica di Maria Bellonci, era un premio notoriamente di “destra”, aborrito dalla sinistra, su tutti da Primo Levi.

 

Berto e la quaestio del Neorealismo. La polemica con F. Seminara.

Nel ‘50 dal libro è tratto il film, da inserirsi nel filone neorealista, anche se Berto si riteneva un “neorealista per caso” e parla di “inconsapevole approccio” alla corrente che a suo dire appartenne più al cinema che alla letteratura.

La questione non è da poco, anche perché l’Italia è un paese di diffidenti e di invidiosi e anche il campo letterario è pieno di vanesi. Per molti “Il cielo è rosso” inaugurò il neorealismo in letteratura, anche se Berto non si accorse di averlo fatto o, per lo meno, non ebbe quest’intento nello scriverlo.

Molti anni dopo, negli anni ‘70, sorse, proprio in Calabria una polemica con Fortunato Seminara, l’autore di Maropati che nel ‘42 aveva pubblicato “Le baracche”, tipo notoriamente sanguigno e scontroso, il quale non perdonò a Berto d’aver riportato in un suo scritto giornalistico tale voce. Seminara, infatti, riteneva d’aver conseguito prima di lui la “patente di neorealista”, avendo pubblicato 5 anni prima de “Il Cielo è rosso” la sua opera: una vicenda che ebbe qualche sgradevole strascico, perché Seminara usò improperi e calunnie, arrivando a denigrare Berto che in Calabria era molto stimato, visto che ci viveva e, sicuramente, molto più famoso di lui.

La querelle è riportata da un sulfureo cronista della nostra terra che mi pregio di ricordare: Sharo Gambino, i cui reportages hanno svelato il volto umano della nostra regione e che di Berto fu amico e di cui ci ricorda più di un aneddoto.

Torniamo a “Il cielo è rosso”: un giudizio critico, quello di Giacinto Spagnoletti che disse che il libro è scritto “all’americana”, dando alla definizione una connotazione negativa. Berto, che era uno che amava rispondere, dirà che, nel periodo in cui lo scrisse, nel campo di prigionia in Texas, non aveva ancora letto Hemingway, (a cui verrà spesso accostato), e che forse il suo influsso gli era giunto da altri autori.

C’è poi tutta una vicenda editoriale inerente all’opera, ricostruita da Evaldo Violo. Leo Longanesi era furbo, aveva fiutato subito la “combinazione esplosiva” del romanzo. Lui e Berto non è che andassero molto d’accordo, l’editore voleva fare dei tagli, l’autore non voleva.

Ci fu poi la questione del titolo e, soprattutto, quella del contratto, al punto inerente i diritti d’autore sulle vendite effettive, che furono davvero enormi, se consideriamo che insieme a “Cristo si è fermato a Eboli”, “Il cielo è rosso” fu il libro più letto del dopoguerra.

Non che Berto fosse nato litigioso, ma amava puntualizzare le cose, mettere i puntini sulle i, sottilizzare. Pensate che il libro vendette 24000 copie subito e nel tempo nell’edizione Pocket economica ben 125000!

 

La seconda prova d’artista  è “Le opere di Dio”, del 48, edito dal modesto editore milanese Macchia, con una tiratura di sole 3000 copie. Qui i profughi in fuga sono immersi in un paesaggio lunare, sperduti prim’ancora d’esser perduti, senza una meta, senza speranza. C’è molta desolazione, non è l’ideale seguito de “Il cielo è rosso”.

Un decennio sta per concludersi. Berto, intellettuale di provincia, scrittore conosciuto e letto, è pronto per il “grande salto”, nella capitale. Nel ‘49 Leopoldo Trieste, prolifico attore di Reggio Calabria, dopo aver letto un suo racconto, lo trascina a Roma, lo va a prelevare direttamente dal paese, gli dice: “E’ a Roma che devi stare, è lì che avrai il successo internazionale”.

Dal ‘51 Berto risiede stabilmente a Roma e qui sposa una giovane di vent’anni più piccola: Manuela Perrone. Sono gli anni romani dell’affermazione oltre che come scrittore anche come marito e padre, infatti nel ‘54 nasce l’unica figlia, Antonia. Ma sono anche gli anni in cui inizia a manifestarsi la nevrosi che lo accompagnerà per parte della sua vita e da cui si risolleverà con l’analisi.

A questo punto, cala la suspence…! Il resto lo troverete in una futura pubblicazione, corredata di una lirica composta ad hoc per abbellirla, com’è mio uso fare. Spero di non avervi tediato e di avervi fatto riscoprire il Berto meno conosciuto.

 

Maria Concetta Preta – docente di Lettere Classiche, scrittrice e poetessa –