Lectio magistralis sull’Arte della Poesia. Recensione della silloge: “Memorie di ombre nel crepuscolo” di Francesco La Porta- prof.ssa M.Concetta Preta

                                                                       Chi sono?          

Son forse un poeta? / No certo. / Non scrive che una parole, ben strana / la penna dell’anima mia: / follia. / Son dunque un pittore? / Neanche. / Non ha che un colore / la tavolozza dell’anima mia: / malinconia. / Un musico, allora? / Nemmeno. / Non c’è che una nota nella tastiera dell’anima mia : / nostalgia . / Son dunque … che cosa? / Io metto una lente / davanti al mio cuore / per farlo vedere alla gente. / Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia.

Aldo Palazzeschi, 1909

 

Voglio iniziare in medias res con un tuffo in uno dei momenti secondo me più alti toccati dalla lirica del 900: l’autoritratto di Palazzeschi, uno dei mei autori preferiti che userà quest’opera a mo’ di prefazione di tutte le sue raccolte e che contiene tre definizioni: follia- malinconia – nostalgia che io ritengo categorie universali del far poesia.

Tre temi che ho ritrovato pure nella silloge Memorie di ombre nel crepuscolo di Francesco La Porta, che mi sta molto cara.

 

Ma chi è il poeta oggi? Un solitario che si strugge? Che impreca? Che piange e non viene capito? Direi un coraggioso, in primis, uno che osa, perché ci vuol coraggio a svelare se stessi.

Ecco in ciò sta la differenza col narratore di storie: questo si può adombrare dietro i personaggi, il poeta no.

Qualcuno potrebbe chiedere: Perché scrivere poesia oggi? Non c’è una risposta netta, tout-court. Io do la mia.

L’Arte è qualcosa di ineffabile, è un attimo da cogliere e il nostro giovane A. dimostra di averlo colto il Kairos, il momento opportuno che corre veloce e che gli antichi greci riproducevano proprio come un giovinetto in corsa.

E sempre di corsa noi siamo, in questa società finta e “liquida”, secondo una felice definizione del sociologo Bauman, che mi piace molto: ossia un mondo in movimento senza saldi principi su cui fondarsi.

Un mondo che va veloce, ma anche senza valori, eppure proprio nei momenti di crisi, si sente quella “ fame di versi” , quell’esigenza di poesia di cui parlava Maria Luisa Spaziani e ci si chiede, come faceva M.Luzi, “come avrebbe fatto – e farebbe – il mondo senza poeti”.

Siamo tutti d’accordo che non è più tempo dei poeti – vate e delle catechesi.  D’altronde questa figura è scomparsa da tempo, ce l’hanno insegnato la lezione dei crepuscolari, di Gozzano, e quella del Pascoli: ma anche se non si possono guidare eticamente i popoli, si può  e si deve instaurare un dialogos tra individui e il poeta svela le mille sfaccettature del reale, ed offre un filo di speranza a noi che siamo tutti “viandanti sperduti” in un viaggio spesso davvero senza mèta, che è la vita stessa.

Un libro è, esso stesso, un piccolo grande viaggio all’interno dell’anima di chi lo concepisce: un viaggio bellissimo, affascinante che inizia e non si sa se finisce, preludio di uno più lungo che, forse, s’ha da compiersi.

Un libro di poesie è poi una piccola summa dell’essere, non semplicisticamente un diario, io non ci vedo direttamente la vita e d’altronde il poeta è un artista che trasfigura e sublima, plasmando la vita in una forma per lui ideale.

Fare poesia: due gli ingredienti: vocazione e ispirazione.

 

Si è chiamati, o forse scelti, per fare i poeti. Prescelti da un dio, dicevano i Greci. E’ una voce che ci bussa dentro, nei meandri dell’anima e si fa insistente, non puoi sottrarti. L’ispirazione è qualcosa di più complesso: il poeta inizialmente non vede il contenuto, ma solo la forma o l’idea in cui racchiudere i contenuti ancor confusi.

 

La vocazione deve diventare ispirazione. C’è un libro molto significativo a tal proposito che consiglio all’ artista: Forma e idea di Carlo Diano.

L’assoluto è ineffabile, è sciolto da ogni rapporto con le cose o i dati sensibili, e allora il poeta che fa per dar vita ai suoi prodotti? Prende in prestito immagini dalla realtà per esprimere l’ideale che solo lui vede. Perché il poeta è uno “che vede oltre” e, aggiungo, “che va oltre”. L’ispirazione arriva come un lampo che illumina, scompiglia, acceca. E nulla sarà come prima.

Per quanto io sia una classicista, dirò che ci tengo molto alla lezione del Decadentismo e del simbolismo francese, e spero che siano tra le tue coordinate culturali. Poi ricordo l’Anonimo autore del trattato Sul sublime, utile a tutti gli artisti, non solo ai poeti. E’ scontato che, per scrivere, dovrai macinarne tanta, di cultura. E’ una strada spesso in salita e potrai trovarci la passione come la dannazione. Ma in questo mondo c’è sete di cultura, non è una frase fatta, perché c’è esigenza di bellezza, ne ha parlato pure Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti. Bellezza fa rima con purezza e il poeta è un puro.

 

Dopo questa piccola prolusione d’avvio, andiamo al mio compito oggi, recensire un giovane poeta. Il motivo per cui sono qui. Sarei venuta comunque perché è raro assistere al debutto letterario di un nostro liceale, i giovani oggi non hanno poi così tanta voglia di scrivere … come di leggere… come di studiare.

Sono dunque qui per la recensione. Voglio partire non dal poeta, ma dalla mia esperienza.

 

Quando vengono recensiti i miei libri da critici, per lo più professori, a volte scrittori, a volte giornalisti ( ti dirò che preferisco gli scrittori come me che ritengo i più liberi )  con la loro pluralità di interpretazioni …. Io alla fine  mi chiedo: davvero ho scritto tutto ciò?

E’ questo, a mio avviso, il miracolo dell’Arte: comunicare una complessità di idee che neanche immaginavi di avere, per cui ogni lettore vi leggerà qualcosa di diverso rispetto ad un altro e ad un altro ancora e si creerà una bellissima ragnatela di pensieri e uno stimolo continuo. Ma “Tot capita, tot sententiae” … e bisogna avere l’umiltà di accettare anche le critiche, sempre se non campate in aria. Comunque, ci vuole coraggio, a scrivere. Di più, a pubblicare.

D’altronde un libro lo si scrive per comunicarlo agli altri, non per essere esibito a bella posta sullo scaffale della propria libreria: il libro non è un oggetto inerte, una suppellettile inutile. Se lo sfogli, ti apre un mondo.

In questo mondo io mi sono tuffata con lo stupore di un’iniziata. Mi sono immedesimata, ho cercato di indovinare il momento in cui Francesco può aver scritto le tue liriche, immaginando che tu non l’abbia fatto solo al crepuscolo, come recita il titolo.

Era estate? Era inverno? Eri a scuola? O nella tua camera? Insomma: qual è stato il suo kairòs? Perché io voglio darti un soprannome stasera: Poeta dell’Istante.

 

Però avevo un compito arduo, a volte non piacevole: Recensire che non è solo leggere, ma è qualcosa di più e anche qualcosa di meno.

Spiego: Leggere è solo gusto ed euforia, esaminare vuol dire andare a caccia della famigerata chiave di lettura, o della fantomatica “reductio ad unum” di cui a Francesco avranno parlato i prof di letteratura ed alla quale io non credo molto. Una bella locuzione che dovrebbe svelare il mondo dell’autore.

Io, lo dico subito, non mi sento di andare alla ricerca del segreto dell’Arte, che sta celato nel cuore di noi che abbiamo, forse, la presunzione e, per quanto mi riguarda, la cocciutaggine di scrivere. L’Arte non sempre si spiega, specie se si tratta di poesia, che è di certo meno “acciuffabile” della prosa.

 

Tranquillizzati, giovane poeta: Recensire non vuol dire mettere i voti, anche se si esprime un giudizio. E d’altronde Scrivere, l’avrà capito Francesco e gli sarà per questo piaciuto, non è sostenere un’interrogazione.

Per quanto mi concerne, l’artista nel momento poietico è scevro da condizionamenti, libero di scrivere ciò che sente: nella libertà sta il crisma dell’arte, la sua purezza.

Ma, una volta che si pubblica, si sa che la valutazione fa parte del gioco. Il termine di “critica” non va caricato di valenze negative, se lo riprendiamo ad litteram, ha implicanze formative e costruttive.

 

Recensire non è d’altro canto sviolinare e lodare all’inverosimile. Occorre anche qui, come nell’Arte, il giusto mezzo, si deve lavorare in economia, come amo fare.

E allora: dirò quello che c’è e quello che non c’è nel libro Memorie di ombre nel crepuscolo.

C’è l’impeto, l’ardore che brucia, il fuoco sacro dell’Arte al quale l’autore non poteva e non doveva esimersi, sarebbe stato un peccato – ripeto: più artisti ci sono, meglio è in questa società amorfa e in movimento.

E tra poco esaminerò l’Arte che ci ho trovato e che mi ha captata.

 

Cominciamo con quello che non c’è ancora, ossia la coscienza di una vera e propria poetica: e d’altro canto la giovane età non poteva permettere che già ci fosse: si tratta di un appassionato debutto, è come se ti tenessimo a battesimo stasera.

L’auspicio è quello di proseguire su un felice sentiero, mettendocela tutta per affinare la tecnica e per allargare i temi, cose che ovviamente, già sai di dover fare perché a, dirla come Shakespeare: “Poeti si nasce oltrechè si diventa”.

 

Un mio consiglio? Quello di lavorare in leggerezza, ripescando la lezione dei classici che Francesco conosce, soprattutto il to meden agan , il nessun eccesso, o la nobile semplicità di cui parlava il Winckelmann: i lettori non vanno mai annoiati, non bisogna tirarla mai per le lunghe, ma lavorare in economia, ripulire delle scorie i carmi, come faceva Catullo che consegnò a noi in tutta soavità dei brevi ma lucidi componimenti in cui niente è di più e niente è di meno.

Chiaramente, alla base c’è il monito di leggere di tutto, continuamente, e di essere curioso verso ogni manifestazione intellettuale… ma questa forma di curiositas mi pare che non manchi al giovane poeta.

 

Veniamo alla forma. Piacevole è la freschezza, è acqua pura che mi ha irrorata, è  stato un po’ un tuffo nel mio passato di liceale, quei “canti sparsi” che giacciono in un cassetto e che non ho avuto mai il coraggio di pubblicare.

 

Perché di te, Francesco, lodo il coraggio di aver pubblicato i tuoi pensieri in versi conchiusi in una silloge di buona fattura, elegante e tersa come l’orizzonte poetico che in essa si schiude, a mò dei petali di un fiore.

Cosa c’è nella silloge? La freschezza dei pochi anni dell’autore e la sua gioia compositiva che trascina come una melodia. Questa l’ho sentita tutta, le liriche le ho rilette non per capirle, ma per coglierne il senso unitario, la benedetta chiave di lettura. Anche questo mio è stato un piccolo viaggio teso alla scoperta di un mistero che, come la Vita, si rinnova: quello dell’Arte. Ma, ripeto, un viaggio inconcluso il mio, perché la poesia per me non si può ridurre logicamente a categorie.

Comunque doveva essere un viaggio il mio e allora, primo passo: Chi è l’A., cosa fa, dove vive. Molti di voi lo conoscono bene, più di me.

Conoscere un autore potrebbe apparire un vantaggio per carpirne l’Arte, invece secondo me non è così.

Francesco proviene dal nostro liceo classico Morelli di Vuibo Valentia, anche se è pizzitano. Appartiene a quel Grande Sud nel cui alveo sono pasciuti grandi autori.

Della scuola, nella quale si è  formato, mi pare che non abbia proprio voluto scrivere, e secondo me ha fatto bene, per non cadere nel banale e nell’effimero.

 

Non ho trovato un’impronta della sua terra di appartenenza, per cui i suoi versi sono quelli di un giovane poeta d’Italia, di meridionalistico non ci vedo nulla. E credo che anche questo flashmob pizzo io e La Porta la porta1PIzzosia giusto, vista l’ età. Non è tempo per lui, di parlare del Sud. Il ritorno al Sud lo farà, magari alla maniera verghiana, in un’altra fase della  vita, perché il Sud ce lo portiamo sempre con noi, dovunque noi siamo.

Non c’è neanche l’autobiografismo ad effetto o il sentimentalismo di maniera … e menomale, che io non amo gli “ismi” con tutto ciò che ne consegue, sanno di eccesso e contaminano la limpidezza del dire.

 

L’avrà capito il giovane poeta che sta nell’aurea mediocritas il tocco d’artista, avrai letto bene Orazio e, prima di lui, i lirici greci arcaici: rendere pesante e pedante l’arte è un errore, essa ha bisogno di quella leggerezza e quella charis, o soavità o grazia e, se è Poesia, ancora di più. Quindi lo lodo perché non ha ecceduto.

 

Poi ha avuto la giusta intuizione che è la condicio sine qua non: trasfigurare il suo contesto di appartenenza, perciò questo libro non è un diario o almeno, io non l’ho letto così.

 

A dirla come Octavio Paz: il poeta non ha biografia, la loro opera è la biografia, ma non quella reale, che si scrive in prosa.

Se fosse stato troppo intimo, non mi avrebbe allietata per niente. E non lo è, anche quando l’ardore c’è e si sente. Che non l’abbia già capita la grande lezione del classicismo, l’annullare il travaglio infinito in una forma finita che aspira all’ideale?

 

Per quanto concerne il timbro meridionale, io non sono una sostenitrice del Meridione a tutti i costi. Mi sembra la silloge più ”metropolitana”, in certi momenti post-moderna e me ne compiaccio, io vengo dalla grande lezione di Eco e degli anni 80.

Ha fatto bene Francesco ad uscire dal provincialismo che marchia a fuoco certe opere, credo che possa in futuro spiccare il volo. Certo non ha l’età per scrivere del Sud, forse non ne ha la vocazione, magari la vita lo sospingerà altrove… ad oggi non mi pare di sentire il topos delle radici.

 

Gli consiglio, dovunque tu vada, di non dimenticar di essere figlio di questa terra e di portarne un lembo sempre con sé e di non vergognartene.

 

A ben guardare, leggendo con cocciutaggine tra le strofe, qualcosa di meridionale nelle liriche l’ho trovato: la malinconia. Che sia essa una dimensione dell’anima è indubbio. Ho letto Palazzeschi, per lui il poeta deve essere un malinconico.

E noi calabresi siamo malinconici, o per dirla alla francese, melanconici.  Una sorta di “malinconia ambientale”… una tristezza legata a un senso di lontananza dal tempo e dallo spazio di cui hanno parlato antropologi come Luigi Maria Lombardi Satriani o Vito Teti.

 

Ripeto: Leggere un libro di poesie non è comunque come leggerne uno di narrativa: qui alla fine lo trovi il “sugo della storia”, con la poesia non è così. Si tratta, per dirla alla maniera petrarchesca, di Fragmenta, di moti dell’animo, di folgorazioni peregrine.

Io stessa sono convinta che la poesia non si deve leggere per essere capita, ma per esserne carpiti, ne va individuata l’anima, bisogna accostarsi senza forzare la mano, stupirsi come il fanciullino pascoliano, stordirsi e sognare perché ogni poesia è un piccolo sogno ad occhi aperti.

Un sogno garbato, mai dimenticarci di questa grazia, di questa forma di gentilezza… è o non è il poeta un “cuor gentile a cui ripara sempre amore?”

 

La lezione dei Grandi, mai scordarla, F., ma farla propria, perché non tradirà mai. Universale è la Poesia, particolare la prosa, diceva Aristotele, l’Ipse dixit del Medioevo, un guru dell’arte ancora per noi, se vogliamo stupirci con ciò che è antico, ma mai scaduto e che, in una società liquida- ripeto –  come la nostra, va controcorrente.

 

Chi fa arte, va controvento e segue solo il suo istinto.

 

Torniamo a quello che c’è nella silloge: l’ampiezza dei temi, il bel ventaglio tematico, articolato in riflessioni, ricordi, apostrofi, sdegni, illusioni. Senza nessuna complicazione inutile, col sacrosanto rispetto delle regole, ma quanto basta (chè l’arte è anche osare e infrangere …) “Memorie di ombre nel crepuscolo” si compone di una serie di pennellate sulla tavolozza di una vita, seppure giovane, e ci sono tutti i colori di un iride. Ut pictura poiesis disse Orazio e, prima di lui Simonide di Ceo, un odei primi critici d’arte che l’Occidente vanti.

 

Il titolo mi richiama tanto Pindaro e, in generale, i lirici arcaici monodici, come pure la grande lectio della scuola ellenistica dell’epigramma che arriva fino all’età bizantina.. Pulvis et umbra sumus disse Orazio in suo carme, e non sbagliò.

L’incipit è un programma: “Resterò”. A mo’ di epigrafe, il Monumentum aere perennius o il Non omnis moriar sempre oraziano… ma via via si arriva a Foscolo che coltivò le sue illusioni, tra cui quella della gloria e dell’immortalità e pure Leopardi….e forse tutti gli scrittori che, proprio col loro atto puro, vogliono rimanere per sempre.

 

“Resterò” ci introduce nel cuore tematico della silloge, di cui non citerò i titoli che mi hanno toccata, perché farei torto all’A. che va rispettato nelle sue opzioni come pure nell’ordine che ha dato ai suoi pensieri.  Servirà il reading a farvi entrare direttamente tra le righe di polvere o dentro il flatus vocis, il respiro sonoro di immagini ricreate artificialmente ma sempre filtrate dal vivere, attraverso la musica segreta di verba non vana, di parole non inutili, che sono il riflesso mistico delle emozioni.

 

Credo nella parola poetica come mistica e mistica fa rima con mistero, ne ha la stessa radice che vien da mùo che in greco vuol dire sto zitto. La parola poetica è dunque un mistero, è ineffabile. Il poeta è un veggente, come Rimbaud.

 

Eliot diceva che la vera poesia comunica prima ancora di essere capita. La poesia è come la musica, è raptus, non si spiega.

Ci ho colto tanto disincanto e spesso un distacco pacato, che è già di chi sa della vita … e me ne sono stupita di tanta saggezza.

 

Mi sono chiesta se ci sia nella silloge il ben noto pessimismo che tanti poeti rincorrono, ma pur sforzandomi, non l’ho colto. Ho colto invece la Poesia dell’Attimo, dell’istante, del Kairos come dicevo all’inizio. Neanche poi tanto del ricordo, che il nostro poeta ha tutta la vita davanti. E soprattutto, ho colto la gioia compositiva, che traspare nel numero e nella fattura della timbrica.

E’, questa gioia, un’assoluta fede nell’esperienza totalizzante del canto e nella sua valenza catartica, oserei dire taumaturgica. Miracolo della Poesia, che lenisce il dolore. Orfeo col suo canto smuoveva le pietre e ammansiva le fiere, non dimentichiamolo.

 

Tra aneliti d’infinito e desideri di abbandono, tra momenti in cui prevale la forza di un pensiero già maturo e altri in cui è più marcata l’introspezione psicologica e un guardarsi come ad uno specchio, fino alle dolci irradiazioni amorose e ai teneri struggimenti, all’inesausta ansia per la felicità e per il tempo che vola… mi pare che il giovane poeta con la sua “dolce malinconia” abbia compiuto una lodevole prima d’autore.

 

Io gli auguro di studiare la lezione dei grandi, di ogni tempo e luogo, senza preconcetti, di ricavarne nutrimento e lenimento, di stupirsi e commuoversi e, se vorrà, di continuare imperterrito. Ripeto: il nostro mondo ha bisogno di arte, quindi la tua opera non è vana e non lo sarà, sempre se sarai ispirato e non comporrai per numero, ma per passione.

 

Che il suo cammino sia foriero poi di ulteriori sviluppi, di contaminazioni e stimoli. Ricorda: Fare il poeta è pure un impegno etico e, se vogliamo, civile.

“Assumiti la responsabilità di ciò che scrivi, immagina a chi arriverà, fatti portatore di un messaggio, non scrivere solo per tuo diletto. Se allargherai i tuoi temi, di certo ti scontrerai con la realtà, anche quella che fa male, che ci urta, ma che ci solletica e ci sprona. Filtra la realtà, ma non ti escludere da essa, non chiuderti in una turris eburnea, come faceva Persio. Meglio partecipare al corso delle cose.

Prosegui comunque e sempre, senza arrenderti e soprattutto, senza scorciatoie che per i veri artisti non servono.

Ecco, questo è quanto ho sentito di dirti, di getto, senza accademismi che, lo sai, non mi appartengono”.

 

Finisco, secondo una tecnica compositiva che mi è cara, così come ho cominciato per dar finitezza al mio contributo scritto per il giovane poeta.

E’ una lirica di Montale (Ossi di seppia) che fu poeta, anche lui, delle Occasioni:

 

Non chiederci la parola

che squadri da ogni lato

l’animo nostro informe

e a lettere di fuoco lo dichiari

e risplenda come un croco perduto

in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’ uomo che se ne va sicuro

Agli altri ed a se stesso amico

E l ‘ombra sua non cura che

la canicola stampa

sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula

che mondi possa aprirti

Sì qualche storta sillaba

e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti:

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

 

 

Prof.ssa Maria Concetta Preta