TRADIZIONI POPOLARI E USO DEL DIALETTO IN CALABRIA: ANTROPOLOGIA DEI LUOGHI, RICERCA E FANTASIA NELLA CONIAZIONE DI UN SOPRANNOME

LECTIO MAGISTRALIS – PROF.SSA MARIA CONCETTA PRETA

TRADIZIONI POPOLARI E USO DEL DIALETTO IN CALABRIA:

I SOPRANNOMI PIZZITANI TRA ANTROPOLOGIA DEI LUOGHI, RICERCA E FANTASIA

“Nei Soprannomi, si racchiude un mondo intero”

MCP

 

La lectio è stata redatta per presentare il volumetto di Francesca Camillò: “E tu… i cu si figghjiu?” Studio sui soprannomi pizzitani.

Ammetto di provare diverse soddisfazioni:

– da una parte quella di constatare come ancora sia possibile, in tempi nei quali si parla poco o per niente di cultura popolare, avere elaborato una raccolta sull’onomastica napitina che appare piccola, ma che invece è esaustiva e consistente, per niente frammentaria ed episodica;

–  dall’altra quella di essermi addentrata in una vera e propria micro-lingua locale della quale vorrò parlarvi nel corso del mio lavoro di recensione letteraria;

– infine – ma non in ordine di priorità –  di essere contenta che la ricercatrice sia giovane e abbia dimostrato un’attenzione verso il territorio d’origine che non sempre si riscontra nelle nuove generazioni e che io considero invece un bene prezioso. I giovani oggi non vanno a braccetto con la cultura.

Ma senza l’amore per la propria città o paese non c’è identità e si è persone a metà.

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Le nostre tradizioni popolari sono una risorsa da non disperdere nel dimenticatoio e bisogna interessare i giovani e invogliarli alla loro conoscenza.

Vi svelo la metafora che spesso uso in classe coi miei allievi liceali sull’insistenza del passato nel presente. Il passato è fra noi, se vogliamo accorgercene, coi suoi usi e costumi, la sua cultura e, per dirla in una parola, la civiltà, che è poi quella dalla quale proveniamo. La metafora che uso è quella della staffetta.

 

La uso quando parlo loro della permanenza nella letteratura latina –  avviata ufficialmente nel 240 a.C. grazie a L. Andronico –  di quella greca che i Romani – ritendendosi eredi legittimi dei Greci – portarono avanti sistematicamente proprio dal III sec.a.C. quando i Greci avevano prodotto capolavori irraggiungibili e avrebbero avviato una stagione, quella ellenistica, non così eccelsa come quella classica.

Così è per la permanenza della storia, che si tramanda di generazione in generazione: è come la gara della staffetta in cui l’atleta stanco, cioè la persona anziana, consegna il testimone all’atleta fresco e vigoroso, cioè il giovane che si farà portatore di quei valori.

Così è per Francesca, giovane promessa della ricerca che, ne sono sicura, in futuro farà ancora parlare di sé, vista la genuinità e l’entusiasmo con cui si è accostata a questo suo lavoro che lei chiama – leggo dalla prefazione – “uno scavo archeologico all’interno della memoria popolare”.

Una fatica sul campo la sua, una ricerca autoptica che è stata coronata, come è giusto in simili casi, dalla pubblicazione a stampa, per sigillare un viaggio alla riscoperta di un microcosmo sicuramente noto in loco, ma non ai più.

E’ dunque questo un lavoro encomiabile e che andava fatto.

 

  1. è partita da un’indagine preliminare, e ha scoperto che il tema era interessante e valeva la pena di approfondirlo. Sul suo cammino ha destato la curiosità di molti e ha via via incontrato le persone che le han fatto da “Virgilio” – dux-guida – nel suo itinerario di riscoperta di un patrimonio che, se non si tramanda in forma scritta, è destinato nel tempo alla disconoscenza.

Tra queste persone Mimmo e Sara Pacifico, che da bravi Genii Loci hanno vagliato, aggiunto, esaminato e hanno consegnato a Francesca il loro testimone ideale: la messe di soprannomi pizzitani.

Perché accade così quando si fa ricerca de visu, andando direttamente sui luoghi: si incontrano i ciceroni, i depositari di un sapere popolare che trova la sua collocazione proprio tra le vie, le piazze, i crocicchi, i palazzi, le case, le chiese… ossia i luoghi dell’incontro e dello scambio orale.

 

I luoghi ci parlano e ci svelano una storia antica e nuova, in cui si intersecano passato e presente. La loro voce non è un urlo, ma un sussurro … tocca a noi ascoltarlo e comprenderlo.

Come ebbi a scrivere in un mio romanzo (Il segreto della ninfa Scrimbia, n.d.r.) :

La storia è per i più un buco nero… la cui dimenticanza fa orrore perché è l’anticamera dell’ignoranza e, con essa, dell’inciviltà. Se sappiamo da dove proveniamo, forse capiremo meglio dove andremo.

Io, nell’approcciarmi al volumetto di Francesca, ho vissuto un vero e proprio piccolo “flash-back nel passato” : sono emersi non solo i soprannomi, ma con essi nomi, curiosità, aneddoti, leggende, storielle, immagini desuete … una miscellanea di notizie varie, uno schizzo di vita del mio territorio e ora mi sento più ricca grazie a quest’incontro con la storia che si fa cronaca e piace di più, tinta com’è dei tanti colori della quotidianità.

 

La Calabria è una terra magnifica, ha tradizioni millenarie in cui emerge il ruolo del popolo, il demos greco, che basa la sua sapientia sull’empiria, sulla conoscenza pratica e non speculativa che è degli astrattismi filosofici.

La gnoseologia popolare ha attratto molti esimi studiosi e non solo antropologi o cultori del folklore. Di questa ricchezza incontaminata, perpetratasi nei secoli, ne accorse anche Italo Calvino che nelle sue Fiabe Italiane riportò innumerevoli testimonianze orali in forma appunto di fiabe.

Voglio ricordare che l’anno scorso per i tipi della Donzelli è uscito il pregevole lavoro di Letterio di Francia “Re Pepe e il vento magico”- Fiabe calabresi  che, con bellissime illustrazioni, riporta fiabe calabresi da fare invidia alle Mille e una notte.

Che la Calabria sia terra dell’affabulazione popolare lo hanno sempre saputo gli studiosi di demologia, da Raffaele Corso a L. Bruzzano, da G. B. Marzano a Mariano Meligrana fino ad arrivare a Raffaele e a L. M. L. Satriani, a Pino Cinquegrana, a Vito Teti.

Perfino P. P. Pasolini nel suo viaggio lungo le coste d’Italia, arrivato in Calabria vi scoprì un dialetto magnifico che volle usare come lingua popolare in uno dei suoi film sul Vangelo.

Vittorio de Seta poi, il grande regista siciliano trapiantato qui, nel suo Viaggio in Calabria ci ha lasciato la testimonianza visiva di quanto sto dicendo: ossia che la cultura popolare calabrese è la base della nostra civiltà.

 

Essa parte da lontano, dalla Magna Grecia e dalla koinè ellenistico-romana, per poi passare ai Bizantini e a tutti i popoli che ci invasero. Di ogni passaggio umano essa serba le tracce. E pure nei nomi, negli epiteti, nei nomignoli.

Questa civiltà popolare attende di essere riscoperta, è uno scrigno favoloso che custodisce tesori inimmaginabili che ci parlano di una terra bella e dannata, mobile e nobile, incompiuta, precaria, in perenne fuga da se stessa e alla ricerca di punti stabili. Terra inquieta, per dirla alla maniera del prof. V. Teti, uno dei massimi esperti di antropologia, presente al Premio Tropea la scorsa domenica dal cui palco ha lanciato il suo urlo di dolore ma anche di riscatto, da perfetto intellettuale qual è. Oppure Terra Dolente come scrive Filippo Veltri, che sarà a Vibo il 29 c. m.

 

Così scrivo io della Calabria (in “Rosaria, detta Priscilla, e le altre”, n.d.r. ):

La mia terra: una manciata di bellezza sprecata, lanciata per caso o per sbaglio, dall’alto dei cieli. Una piccola distrazione dei celesti … ed ecco la Calabria, in cui l’abbaglio della perfezione si unisce all’abominio della nefandezza”.

 

 

Entriamo ora direttamente tra le pieghe del libro. La materia trattata, per prima cosa:

L’ONOMASTICA e l’USO del SOPRANNOME. Il nome, dal gr. onoma, rappresenta uno dei modi migliori per addentrarsi nelle tradizioni popolari, insieme ai nomi dei luoghi, che attengono alla TOPONOMASTICA o toponimia.

I s. attengono all’area più fluida dell’ANTROPONIMIA, perché più fluida? Perché meno registrata in forma scritta negli atti di nascita, per motivi di discrezione e riservatezza, e perciò destinata a esser cancellata prima.

Perché questo è il destino dei s.: disperdersi. E’ noto come una categoria di sopr., quelli che riguardano un fatto accaduto o caratteristiche fisiche, attribuiti in giovane età, sono dimenticati col passare del tempo.

Ci sono però quelli che sopravvivono di più: i s. di famiglia o di casato, trasmessi da padre in figlio come il cognome, ma neanche loro non registrati ufficialm. e tramandati oralmente.

Benvenuta dunque una ricerca che ha tutto l’aspetto di UN’INCHIESTA DIRETTA paziente e tenace, che s’incunea tra i risvolti della vivace vita paesana, seguendo tracce in via di estinzione.

 

Il ricercatore chi è? Uno che cammina sui LUOGHI della storia. Lo disse Erodoto, il pater historiae, che fu grande viaggiatore. E’ il viaggio che determina la scoperta, così pure per Marco Polo o C. Colombo … e tanti altri.

Nell’antichità i primi storici sono i Logografi, che scrivono dei luoghi prima che delle persone. Ecateo di Mileto o Ellanico di Mileto i Timeo di Tauromenio – Taormina – sono tutti infaticabili camminatori. Il cammino è conoscenza.

Allora non era immaginabile, come oggi, un lavoro a tavolino e suffragato solo da fonti scritte o archivistiche. Era conoscenza il cammino, e lo è ancora, per es. per gli archeologi, che svolgono un lavoro sul campo, di movimento, che sprigiona un’energheia fisico-emozionale, grazie al contatto diretto con le persone. Così è per chi studia l’antropologia, o il dialetto.

Non è questo un lavoro statico: i luoghi vivono di una loro fisicità, di una corposa consistenza, pretendono il movimento, il percorso fisico perché ci sia una reale riconquista. E’ nei luoghi che ritroviamo la nostra identità. E’ tra i vicoli, le piazze, le botteghe …  che i soprannomi trovano la loro collocazione.

 

Dunque i luoghi originano la storia. E nei luoghi c’è l’uomo che parla e crea. Pure i s. Riguardo alla loro origine non si può applicare tout-court un metodo scientifico.

Qua non vige la massima aristotelica: NOMINA SUNT CONSEQUENTIA RERUM, perché trattasi di persone, non di cose. Non c’è una ratio logica, c’è qualcosa che sfugge e sfuggirà anche al più minuzioso ricercatore che, nel ricercare i s. dovrà, come Diogene, cercare l’uomo.

Perché è la FANTASIA umana il motore che sta alla base della creazione di un soprannome, attraverso l’osservazione diretta della realtà e il voler lasciare traccia di un episodio o di un particolare che ha destato l’interesse e la simpatia.

Proprio di SYMPATHEIA si tratta, cioè di condivisione di stati d’animo, di episodi, di fatti significativi, di modi di essere, di fatti belli o brutti … ma sempre vissuti all’interno di un gruppo sociale e di un territorio.

 

I s. di cui stiamo parlando sono pizzitani perché legati al contesto di origine: Pizzo.

Un luogo pieno di verve e vitalità quello restituito dall’INDEX NOMINUM GENTIUM NAPITINORUM di Francesca Camillò che, col suo libro, ci propone un tuffo nel passato di Pizzo, una ricostruzione del suo spaccato sociale, di quello che doveva apparire agli occhi dei viaggiatori che davvero in tanti vennero in questo luogo delle delizie a cominciare dal 500 – 600 che fu poi l’epoca delle esplorazioni. In un’Europa che si fermava a Napoli, Pizzo attrasse molti avventurieri, studiosi, scienziati, umanisti, pittori …

 

Per capire meglio il mio COLLEGAMENTO DEI S. AL LUOGO DI ORIGINE, farò un piccolo e gradito excursus: Napitia.

Napitia è il nome riportato dalle fonti storiche, documentarie, cartografiche dell’antichità per indicare anche un golfo (Kolpon-sinus) dominato dalla rupe su cui si ergeva quello che uno dei tanti viaggiatori che vennero qui per motivi militari, scientifici, politici, di diletto, il Bartels chiamò “un’incantevole ponte tra terra e mare” e che descrisse di “temperamento sereno” i suoi abitanti, sfatando il mito del calabrese rozzo e selvaggio. Anche un altro viaggiatore, il Denon, parla di cordialità dei napitini che lo accolsero.

E’ l’eredità dell’antica xenìa greca, secondo cui l’ospite è sacro. Che siano stati i Focesi o altri a fondarla, è certo che il sangue greco scorre ancora qui.

Era greca la pesca del tonno, osannata da tantissimi viaggiatori, era greca la cultura del mare.

Si parla della Seggiola come sede di uno scoglio del vaticinio da parte di una locale Pizia, sacerdotessa di Apollo o di Isolette – le Itacesi – che funsero da ricettacolo per le navi di Ulisse che, durante la sua peregrinazione, qui venne accolto e rifocillato.

I Napitini vengono tratteggiati dalle fonti mitografiche e antiquarie come un popolo amico. E cosa fece Ulisse? Per ringraziarli nominò Itacesi le isolette dell’accoglienza e del riposo, a testimonianza che i nome è conseguenza di un fatto. E lo eternizza. Dunque la cordialità della gente, primo punto.

Quanto poi all’amenità dei luoghi, è tutto un coro di lodi, a iniziare dalle fonti del 500 fino ad Horace Rilliet che parla di una grotta meravigliosa o il Lenormant che ci offre una descriptio loci accurata di quest’abitato che l’Alberti nel 1526 aveva chiamato Lopizzo, un pizzo che spunta dalla roccia, un crocevia del mondo vistato dal Barrio e dal Marafioti, che parla del bellissimo castello oltre che delle acque salutifere.

Ed io, che amo curiosare qua e là, mi sono chiesta – alla maniera ippocratea – quanto quest’ amoenitas loci abbia influenzato il carattere dei pizzitani, la loro propensione a chiacchierare, a conoscersi, a colorare col loro parlato un luogo già di per se e pittoresco e renderlo componente essenziale del loro immaginario e soprattutto di quanta fantasia abbiano usato per coniare i soprannomi.

Alla luce di quanto ho detto, la risposta è palmare e ovvia. I luoghi di mare hanno sempre contribuito all’apertura dei rapporti sociali e all’intrattenimento di maggiori relazioni e scambi di conoscenze e i s. testimoniano anche tutto ciò.

 

Con l’inconfondibile dialetto napitino, la micro-lingua che dà colore ai luoghi, li spennella di ironia e di espressività.

 

Sarebbe bello proseguire quest’indagine andando a spulciare proverbi, sentenze, motti, filastrocche, miti, favole, detti, indovinelli, cantiche, leggende … e restituire il volto della cultura popolare e del folklore.

A Vibo abbiamo avuto chi in tempi recenti l’ha fatto: la prof.ssa M. Meli che ha in maniera encomiabile girato in lungo e in largo, andando oltre Vibo alla ricerca di questo patrimonio doviziosamente annotato e pubblicato.

Si tratta di aprire il prezioso forziere dell’Oralità –  che non è certo come il famigerato vaso di Pandora! – e chissà quante cose belle scopriremmo … ma trovare questo scrigno non è sempre facile e aprirlo è faticoso, perché implica costanza, disciplina, dovizia, rigore… e fatica, tanta, troppa.

 

Io questa lista diligente l’ho letta e vi ho trovato la VOX POPULI di cui vado sempre in cerca, occupandomi pure di miti e leggende che traspongo nella mia narrativa.

Il popolo di Pizzo attraverso i s. è un’umanità varia e ancor viva in un tessuto urbano in cui ho risentito suoni, rumori, cicaleggi … ho rivisto arnesi, botteghe, utensili d’un tempo che fu … ho immaginato volti, atteggiamenti, tic, manie, difetti e vizi … ho conosciuto cibi, erbe, animali, ma pure santi e diavoli …

Insomma nelle poche sillabe di un soprannome è racchiuso un mondo intero con le sue credenze, le sue paure e il modo per esorcizzarle, le sue tradizioni, i suoi usi, i riti che per tanto tempo sono stati immutabili.

 

Un tempo che fu e che non è e non sarà mai più. Non serve inutile nostalgia o dietrologia nella ricerca antropologica. Esse deve essere di stimolo per il futuro. E deve appassionare e sensibilizzare chi ascolta e legge.

Si può infatti solo ascoltare e imparare, ad avere la giusta dose di pazienza in un mondo che va troppo di fretta e non lascia nulla di noi.

Ci fu invece un tempo in cui si parlava molto e la memoria era eccezionale: MNEMOSYNE era una dea. Per lei in Hipponion fu incisa una laminetta sull’oro che troneggia in una saletta del nostro museo archeologico al Castello. La memoria era un dono divino. Allora si scriveva e si leggeva poco e si tramandava il patrimonio del folklore ab ore in ore.

Per secoli l’oralità fu l’unico strumento di acculturazione delle masse o comunque dei ceti subalterni ed emarginati dalla cultura aulica.

Ormai la cultura orale è in fase di declino, versa in un irreversibile processo di estinzione perché, mutatis mutandis, ci troviamo in una globalizzazione del sapere che la esclude –  e che esclude anche il libro – e poi è mutata la società, che da contadina si è fatta industriale – e poi l’alfabetizzazione ha portato all’affermazione di nuovi saperi e nuove tecniche di apprendimento  … – e infine si è giunti ad un’omologazione che tende ad appiattire tutti e tutto nel conformismo delle relazioni affettive e interpersonali che ci porta a non riconoscerci più, a non identificarci più.

Questo è il brutto di oggi: che non ci distinguiamo gli uni dagli altri, e più grande è l’ambiente in cui viviamo più c’è la spersonalizzazione dell’individuo che, alla lettera, dovrebbe essere uno e indivisibile, perciò unico, irripetibile e diverso dall’altro.

Un tempo non fu così: lo attesta l’uso di affibbiare il soprannome che nacque pure per distinguere quando ad es. il nome e il cognome combaciavano. Non era gradita l’omonimia, allora. Oggi, anche grazie al web, assistiamo alla clonazione dell’individuo e alla sua morte psichica e affettivo-relazionale.

Il sopr. fu il mezzo ideato per difendere la persona dall’anonimato, per inquadrarla, per individuarla, riconoscerla: oggi siamo tutti anonimi e asserviti alle regole di un mondo digitale dove non ci si incontra più realmente e, dunque, non ci si riconosce. Allora era il soprannome a distinguere il simile dal simile, oggi al motore di ricerca serve il nickname.

Il modello di costruzione di una vita on line, dominante nei social network, è destinata a estinguersi nel più totale anonimato, se non viene suffragata dall’identificazione reale che deve passare necessariamente attraverso l’incontro umano e la relazione diretta.

Purtroppo è l’anonimato una delle forme su cui si può costruire la propria vita digitale che molte volte non combacia con quella reale. Il più delle volte si è eroi sul web e pitocchi nella realtà.

 

Spingerei i giovani a usarli i s. o, quantomeno, a conoscerli, anche attraverso la voce dei loro nonni, zii o avi. Perché tutti costoro li usavano e non è trascorso poi tanto tempo.

Perché li usavano? Per la necessità di individuare, distinguere le persone facenti parte di un gruppo sociale. E’ chiaro che non tutti i s. sono sopravvissuti al processo della selezione naturale – che riguarda, oltre che gli esseri viventi, pure le parole.

E l’ORIGINE di un s.… qual è? La nascita dei s. si perde nella notte dei tempi e così accade che diversi nomignoli, che hanno subìto corruzioni e deformazioni, sono oggi di difficile spiegazione, specie in ordine alla motivazione che li ha generati.

Come per le parole, l’ORIGINE dei s. non è mai banale. Non è che trattandosi di cultura popolare, dobbiamo ritenerla di basso conto e svilirla.

Ricordo a tutti che nell’area grecanica della Calabria, la Kalavrìa, sopravvive un’oasi linguistica che è la Bovesìa dove ancora si parla un dialetto che deriva dal greco antico e che rappresenta uno degli ultimi relitti vivi di quella che è considerata una delle principali lingue morte.

Il ruolo che il popolo ha avuto per la permanenza e la sopravvivenza di riti, usanze, modi di dire e addirittura idiomi è indubbio. Parlare di tradizioni popolari significa imbattersi in perle di poesia e in condensati di saggezza che accarezzano l’orecchio, sollevano l’animo e compensano ampiamente dei disagi incontrati per recuperarli.

 

Ciò che dico ora io ora a voi lo ha detto un altro grande intellettuale del 900, perciò “relata refero”. E’ Giuseppe Berto, lo scrittore di Mogliano Veneto che ebbe a Capo Vaticano il suo buen retiro e trovò un’oasi di incanto, frugalità, bellezza. Non fu un isolamento il suo, che fornì ai Calabresi dell’epoca – anni 60/70 – autorevoli spinte per l’auto-emancipazione e la rinascita dei luoghi. Promosse, prima di morire, anche un festival di cultura contadina del Monte Poro, lamentando che uno dei fattori della crisi dei valori è dovuto al fatto che noi Calabresi abbiamo perso memoria del nostro sostrato agricolo.

Ebbene G. Berto riporta spesso i detti di Nonna Sabella e Mastro Bruno Pelaggi nei libri dedicati alla Calabria, emblemi di quella saggezza popolana che ritroviamo anche nei nostri poeti dialettali, per es. a Monteleone abbiamo Vincenzo Ammirà che scrisse la Ceceide in vernacolo e anche Pizzo non è scevra di testimonianze simili, perché ogni paese ha il suo cultore del dialetto.

Il dialetto è dunque una lingua e i s. sono tutti in dialetto …  e come potrebbe essere altrimenti? Per secoli fu il dialetto la vera lingua della comunicazione e l’unificazione linguistica in Italia si è avuto solo negli anni ’60 del secolo scorso.

 

Che il dialetto calabrese fosse il retaggio dell’antico greco ben lo capì il grande linguista berlinese G.ROHLFS che visitò la Calabria dal 1021 al 1978 e ne fu gradito ospite, e non poteva essere altrimenti in una terra avvezza ai visitatori stranieri e anche settentrionali (voglio ricordare i grandi Paolo Orsi e U. Zanotti Bianco che si interessarono di archeologia, storia, istruzione ed opere sociali in tempi in cui era difficile o impossibile parlare in senso marxista di elevazione delle masse): questo perché i calabresi non hanno potuto – per congiunture storiche – avviare una loro stagione culturale come altre regioni del centro nord Italia e sono stati per del tempo una vera e propria colonia culturale.

  1. Rohlfs è tra le fonti del volumetto di F. Camillò e non poteva non esserlo, visto che è il nume della dialettologia calabro-greca e seppe amare la Calabria come pochi altri.
  2. dedica la sua ricerca linguistica – il Dizionario dialettale della C. – alla “gente calabrese dai molti nomi e soprannomi”: egli riconosce l’importanza storica dell’epiteto che qualifica e distingue, alla maniera omerica e che fu una sorta di anagrafe suppletiva dell’individuo o un suo codice fiscale dell’epoca.
  3. dice testualmente come l’origine delle parole, anche quella dei s. non è mai banale e che spesso rimane oscuro e incomprensibile il particolare motivo dal quale essi si sono sviluppati. IPSE DIXIT, potremmo dire.

 

In effetti, non è raro sentire argomentazioni fantasiose attorno all’origine dei s.: ciò è dovuto al fatto che il tempo tramanda il nome, ma seppellisce la circostanza nella quale esso si è creato.

Che l’origine si perda nella notte dei tempi è indubbio: pensiamo all’epiteto della poesia epica di Omero: il Pelìde o il Tetide, cioè il patronimico o il matronimico per indicare Achille che vien detto “il piè veloce” , oppure il Lungi Saettante o il Braccio bianco o la Glaucopide… oppure gli Atridi …o il Pariaglidei … siamo nella sfera dell’elogio, trattasi di eroi e dei.

Ma possiamo arrivare agli uomini e all’ingiuria: infatti un s. può anche qualificare negativamente una persona e marchiarla a fuoco per l’intera vita. Si narra che Archiloco di Paro e Ipponatte di Efeso, poeti giambici del VII-VI secolo fossero così acerrimi coi loro nemici che essi morivano di vergogna e anzi qualcuno giunse a uccidersi. Potere della parola, che vola di bocca in bocca.

 

Infatti tra le motivazioni più ricorrenti per la nascita dei s. non abbiamo solo quello apologetico-esornativo, ma per lo più – e i s. pizzitani ce lo svelano – ci troviamo in un contesto ludico-scherzoso: è l’ironia la molla per la loro coniazione.

Ricordiamoci ancora una volta – se mai ce ne fossimo dimenticati – che discendiamo dagli antichi Greci e Latini che fecero della commedia, della farsa fliacica, della satyra un modo di osservare e universalizzare la realtà coi suoi difetti e vizi: ecco io credo che il s, altro non  sia se non un retaggio di questa cultura popolare che riscontriamo nel Sales( le facezie) dei Fescennini e nella commedia Atellana alla cui base c’è quell’ Italum Acetum , il gusto per il motteggio e lo scherno che si ritrova nelle opere di Q. M. Plauto.

E in effetti alcuni s, della silloge mi hanno fatto ridere, ne cito alcuni su tutti:

– CARCARAZZA in cui il suffisso -azza ha val. dispregiativo o accrescitivo. Questo s. attiene all’ambito dell’animalizzazione dell’uomo, un travestimento ben noto nella favolistica di Esopo e poi di Fedro, per poi arrivare alla cultura francese. Pensate che questo s. –  non conoscendo l’uso qui a Pizzo – io l’ho usato per uno dei personaggi del mio ultimo romanzo … per indicare una persona che gracchia.

– Così è il caso di CIAVULA, CARDIJIU… termini da ornitologi convinti e qui a Pizzo avete filone culturale in questo senso, penso all’amico Pino Paolillo. La Ciavula o gazza o ghiandaia indica il ciarlatano. Cardijiu viene usato per indicare chi va a caccia di cardellini e si assiste all0indentificazione con l’animale.

Una cosa è certa: i s. vanno a pescare nella natura, nella realtà. E una caratteristica del loro conio è l’ ESPRESSIVITA’ e la PARADOSSALITA’ che sono due elementi tipici della cultura popolare-plebea. Si tratta del grottesco, dell’inverosimile, che genera maggiormente il ricordo.

Non è la normalizzazione ciò che interessa a chi inventa un s. ma l’esagerazione e l’esasperazione. E’ così che si creano le CARICATURE UMANE che sono racchiuse proprio in un s. e che danno vita a una galleria di tipi, un caleidoscopio di personaggi vari . Ricordo che proprio la varietas in latino vuol dire pienezza e questa era una caratteristica dell’antica Satyra, genere italico-latino per eccellenza. Disse Quintiliano: Satyra tota nostra est. E non sbagliò, anche se vi era contemplata l’invettiva, ma non quella alla maniera greca – in cui le parole erano strali che portavano alla morte chi veniva preso di mira. La satyra latina è humour leggero, sofisticato, a volte bonario – penso a Orazio e Marziale, meno Persio, Giovenale e Lucilio – e ci fa sorridere ancora. E così un s. difficilmente si dimentica.

Mi sono piaciuti poi i s. che derivano dal greco, come Cofinaru, colui che porta le ceste in testa, kofinos richiama le canefore greche e il nostro Cofino, altura di Hipponion su cui vi era un favoloso tempio di Demetra e Kore, visibile fino alla marina. Il quale non è più favola, perché recenti scavi archeologici ne hanno rivelato la possanza.

Oppure mi sono piaciuti i s. onomatopeici, come Bumbuni, che richiama il bombos greco, o ronzìo degli insetti e ritroviamo in bomba. Fa parte della cultura contadina e popolare richiamare le parole ai loro suoni, perché è una cultura concreta e pragmatica.

Indubbi sono i richiami alla koinè linguistica del Mediterraneo: oltre al greco e al latino c’è l’arabo, il bizantino, ibericismi e provenzalismi … noi siamo un meticciato di civiltà, se mai ci fossero stati dubbi.

Addirittura ci sono s. anglo-americani, come Very well o very nice, perchè indicavano i lavoratori sulle navi internazionali.

C’è l’esame fonetico e la caratteristica tutta pizzitana del passaggio dalla bilalabiale sorda p alla bilabiale sonora b: simbaticu anziché simpaticu opp. dalla dentale sorda T alla sonora D : ‘Ndona e non ‘Ntonia, con la caduta o aferesi della vocale iniziale.

Ci sono delle storie popolari, come nel caso dei Proibiti, dal lat. Prohibeor, sto lontano: è il caso di tre fratelli a cui fu vietato di star insieme perché erano birichini.

C’è tanta curiositas e amplificatio, perché il dialetto è vivace e pittoresco.

 

Vorrei dire una cosa sullo stile. Questo è un libro che non ha un narrato, perché è redatto in maniera specialistica, ha la forma di una lista, ma secondo me è come se lo avesse perché dietro ogni s. c’è una storia, un vissuto, un “anelito di vita” che urge e vuol farsi conoscere da noi.

Ecco, io credo che aver riportato a galla i s. pizzitani è come aver messo delle tessere nel mosaico della storia e questo è un fatto pregevole.

  1. ha creato un affresco di storia popolare, alla maniera della Comoedia latina di cui dovremmo tutti cibarci. Etimologicamente infatti la parola comedia deriva da com-edere che vuol dire mangiare. E al convivio sapienziale pensò Dante nello scrivere la sua Comoedia che poi Boccaccio chiamò Divina.

Leggere è nutrimento per la mente, è crescita intellettuale. Essere qui e parlare di un libro non è fatto da poco, è banchetto della cultura, è simposio alla maniera antica e ci arricchisce lo spirito.

Leggere di tutto, per farsi un gusto. Ma soprattutto leggere qualcosa di noi, della nostra terra. Per non dimenticare chi siamo.

 

Invito Francesca Camillò a non demordere dalle sue ricerche, a renderle ancora più vive e partecipate magari inserendo un’appendice di commento, un narrato, un pò di aneddotica … perché una pietanza va insaporita dalle spezie e i lettori vanno allettati e coccolati, offrendo loro un pasto gustoso. Solo se saranno ben pasciuti, la materia offerta avrà avuto valore di nutrimento e il libro farà il suo corso, come vero dono a Pizzo.

Perchè … “quella dei s. è la sola nomenclatura che abbia corso in un paese. E’ un’anagrafe emblematica al cui ufficio sovrintende un popolo intero”

Prof.ssa Maria Concetta Preta