La “scrittrice delle donne” Maria Concetta Preta ospite a Drapia (VV) per un convegno sulla Legalità

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Il forte monito contro la violenza di genere e il proprio impegno nelle scuole del comune e della provincia di Vibo Valentia con la campagna di sensibilizzazione #ZeroViolenza: questi i temi toccati dalla scrittrice vibonese Maria Concetta Preta, autrice di “Rosaria, detta Priscilla, e le altre – Storie di violenza e femminicidio” nel convegno “Legalità, trasparenza amministrativa e partecipazione popolare” che si è tenuto il 18 settembre 2017 all’Hotel Maddalena di Drapia (VV) e promosso da Rodolfo Mamone, presidente dell’Associazione Drapia in l’Europa.

Al tavolo dei relatori, coordinato dal dr. Nicola Rombolà, si sono avvicendati, dopo l’appassionata prolusione d’apertura di Rodolfo Mamone, personalità del mondo accademico, culturale, imprenditoriale e politico: l’on. Angela Napoli, il prof. Saverio di Bella, il dr. Mario Romano, la scrittrice Giusy Staropoli. Ha presentato Marcella Davola.

In sintesi ecco ciò di cui la “scrittrice delle donne” ha parlato nella sala gremita da un pubblico eterogeneo e attento:

“ La violenza dell’uomo contro la donna esiste da sempre. Le donne per secoli sono scese a patti col potere maschile mediando, dialogando, accettando e subendo sconfitte. Molte si sono alleate col potere dell’uomo, le più si sono arrese. Esse si sono dovute confrontare quotidianamente con la sofferenza e la frustrazione, imparando a morire interiormente. Ma alcune hanno provato a rinascere, creando per sé stesse, nelle situazioni più disperate, un’alternativa al dolore e una via di fuga alla morte.

Il disagio inizia spesso in casa, che dovrebbe essere il luogo più sicuro per viverci. Si va dalle molestie psicologiche alle micro-violenze, e non si tratta sempre e soltanto del compagno (fidanzato o marito), ma anche di padri, fratelli, parenti. La storia delle donne è costellata di abusi, ricatti, maltrattamenti. Il loro nemico spesso vive sotto lo stesso tetto, non sempre sta fuori. Nella coppia il conflitto inizia con piccoli screzi, gesti e parole, di cui all’inizio lei quasi non si accorge: uno sgarbo, una parolaccia tra mille “ti amo”, un’offesa per niente, o un pizzicotto, un buffetto. “Fesserie” che però diventano frequenti. Lei a volte risponde, a volte no. E intanto si abitua. Lui continua. Finché la vessazione è quotidiana. “Non sei più capace di cucinare”= Squalificata. “Ti sei vista allo specchio? Hai la cellulite, fai schifo”= Derisa. “Io non ti ho detto niente, ti inventi tutto. Sei pazza“= Incolpata. “Se entro le sette non sei a casa, mi arrabbio”= Controllata. Poi i divieti: “Niente gonna, niente tacchi, no rossetto, zero amiche”. Dalle umiliazioni l’uomo passa alle botte. Alla fine lui e lei sono incappati in una spirale di violenza in cui l’uno è dipendente dall’altra. Lui perché ha bisogno di esprimere all’esterno il potere, che non sente di avere dentro di sé; lei, sottomessa e spogliata delle sue qualità, ha bisogno della scossa dell’uomo per sentirsi viva.

È sbagliato dire che è “la donna se l’è cercata”. Negli amori malati c’è un graduale adattamento alla violenza, frutto del plagio e della manipolazione, lenta e logorante, esercitata dal partner sulla compagna. Spesso lei non se ne va subito, a volte non se ne va mai e si lascia uccidere. Il numero di denunce resta basso, sale invece quello dei femminicidi. Ai centri anti-violenza arrivano donne che balbettano e tremano, trascurate e svuotate, che non sanno più fare il loro lavoro, non ricordano più quello che hanno studiato, non si riconoscono come individui. Consumate, alienate, depresse. In pochi le hanno credute. Perché lui con gli altri è un fiore, con lei una bestia.

Voltare pagina e rinascere è un’impresa che richiede tempo e tantissima pazienza, come recuperare un tossico di eroina. E’ un percorso di cadute e risalite, di crisi di astinenza dal male e voglia di liberarsene. Riconoscere la violenza subita è una presa di consapevolezza difficilissima. È l’ostacolo più grande da superare per emanciparsi. La donna all’inizio dice: “Sì, è vero mi ha fatto del male”, ma perdona, giustifica, scambia il possesso per amore, l’autoritarismo per protezione. Ha i sentimenti verso di sé anestetizzati, è incapace di percepire il male contro di sé. C’è come un involucro tra lei e il mondo, una forma di protezione innescata dal cervello per sopravvivere e non scomparire del tutto. Imparare a volersi bene è fondamentale, è il primo passo.

Un altro errore è pensare che l’uomo violento sia un mostro. Non si nasce aggressivi, lo si diventa. Così la donna: non nasce debole, ma arriva a esserlo.

Tante le cause, ognuna col suo bagaglio di disagi. Spesso lei è reduce da situazioni simili vissute in famiglia e tende a riprodurre lo stesso schema, oppure è cresciuta con le svalutazioni di uno dei due genitori. In ballo, per lui come per lei, di sicuro c’è un buco di affetto da colmare. La violenza non è solo un problema femminile, ma anche maschile.

L’educazione ai sentimenti è importante, ma a scuola non esiste come materia lo studio dell’affettività e bisognerebbe renderlo obbligatorio, insieme all’educazione sessuale. “La violenza non si risolve con la prigione. Bisogna partire dai giovani, bisogna insegnare loro ad amare sé stessi” ha detto più volte Paola Lettis, vice presidente di Telefono Rosa.

Questo libro offre uno spunto di riflessione sull’universo “uomo-donna”. E’ destinato a tutti, ma soprattutto ai giovani, perché leggendo capiscano.

L’ho scritto perché non si parlerà mai abbastanza della violenza verso le donne e perché narrare è per me soprattutto non dimenticare, dando voce a chi non ha potuto usarla. La parola, scritta e parlata, è e sarà sempre strumento di conoscenza, progresso, riscatto e speranza nel futuro.

Scrivere questi racconti, per lo più in forma di monologo, è stato per me “un pugno allo stomaco” e mi sono ritrovata a commuovermi, soffrire, ribellarmi insieme alle “mie donne di carta”, chiedendomi “perché?” Per due di loro, Liviana Rossi e Francesca Alinovi, ho attinto dalla cronaca, andando alle radici del fenomeno “femminicidio”. Pur usando la fantasia, mi sono sempre rapportata alla realtà, che purtroppo risulta più cupa dell’immaginazione.

Alcuni racconti hanno uno sfondo ben preciso e diventano indagine storico-sociologica ma, soprattutto, psicologica. In essi trapelano le voci lontane di un’epoca, di cui le donne – emblema del coraggio – sono testimoni. La discriminazione ne è, accanto al malessere e alla violenza, la chiave di lettura.

Anche se alcune storie non si chiudono con la morte, l’atmosfera rimane comunque dolorosa, come lo è stata la storia delle donne.”

 

La scrittrice ha poi voluto ricordare le donne uccise in Calabria per mano di uomini, a cominciare da Roberta Lanzino fino a Fabiana Luzzi e Mary Cirillo.

Su una coraggiosa ragazza di Taurianova (fraz. San Martino) , in particolare, si è voluta soffermare: Anna Maria Scarfò, per anni oggetto di violenza da parte di un branco di uomini, di cui alcuni appartenenti a cosche della ‘ndrangheta. Una pagina buia che la scrittrice ha romanzato, una triste vicenda, conclusasi con la denuncia, in cui si mescolano omertà, ignoranza e violenza sullo sfondo di una terra “bella e maledetta”: la Calabria di oggi.

Presto sul blog la riflessione dell’autrice, confluita in un racconto intitolato: “Muta devi stare!”