Il femminicidio nel 1400 in Calabria: un caso misterioso

FEMMINICIDIO
Maria Concetta Preta ricostruisce un caso di violenza sulle donne del XV sec. avvenuto a Monteleone di Calabria (Vibo Valentia)      

 

   ANONIMA MONTELEONESE: Quando un femminicidio è spacciato per vendetta di un fantasma ….

Scripta manent, dissero gli antichi, e non sbagliarono. Ma è bello anche che, “ab ore in ore” si perpetrino storie, favole, miti e che la voce del popolo fantastichi su fatti realmente avvenuti.

  La scorsa settimana per i miei lettori de “Il fatto di Pizzo” ho rievocato la figura di una “ribelle”, Elisabetta Survara, attestata in documenti giuridici del XVII secolo, stavolta torno ancor più indietro nel tempo e scelgo proprio la mia antica città.
  E’ questa che vi presento una storia che appartiene alla tradizione orale, il travestimento in forma di leggenda di un fatto sicuramente avvenuto, ma passato “di bocca in bocca” fino a diventare un racconto che ammonisce e spaventa.
  E’ un episodio di mistero e morte, legato a un’iscrizione criptica che si conserva nel centro storico di Vibo, antica Monteleone di Calabria.
  La giovane vittima è rimasta senza nome, la chiamerò “Anonima Monteleonese” e la ergerò a simbolo di tutte le donne “innominate” che, oggetto di una violenza maschile inaudita e senza ragione, non ce l’hanno fatta a sopravvivere.
I LUOGHI E LA STORIA POPOLARE
UNA MISTERIOSA LAPIDE E UN MONACO SUI GENERIS

La storia che rievoco si lega appunto ai luoghi antichi della mia città, Vibo Valentia, che un tempo si chiamò Monteleone. Il suo centro storico è pieno di “vecchie pietre che ancora parlano” (“Saxa loquuntur”).

   Quante volte sono passata dal largo G. B. Solari, nella parte alta dell’abitato antico, di quello che fu detto “Borgonovo” dai Normanni-Svevi, nei pressi della Casa della Carità?
  Non me lo ricordo più. Conosco a memoria la via che, da Corso Umberto I, sale fino al Palazzo Santa Chiara, costeggiando la Casa della Carità e quello che fu l’ex Carcere cittadino, un tempo Convento degli Agostiniani Calceati (ossia muniti di calzare, a differenza dell’altro ordine agostiniano, ossia degli “Scalzi”, pure presente in Monteleone).
  Tutte le volte la mia attenzione si sofferma su una nota (ai “vibonesi d.o.c.” … e ne sono rimasti ben pochi …) epigrafe in caratteri latini:

CAVE A LACRYMIS COCODRILLI

 Incisa su di una piccola lapide, è stata murata – chissà quando … – allo spigolo di un isolato. Mi ha sempre incuriosito il suo contenuto, ossia il famoso detto:
“Guardati dalle lacrime di coccodrillo”
  Tutti sappiamo che è un luogo comune pensare che il coccodrillo prima mangi i suoi piccoli e poi pianga.
  Ma quale il significato di questa iscrizione e perché è stata posta proprio lì?
La mia curiosità mi ha portata, ancora una volta, ad indagare e ho trovato “pan per i miei denti”: pensavo di dover risalire chissà a quali misfatti dell’antica storia di Monteleone … quando mi sono trovata davanti addirittura il collegamento con una storia di uccisione di una giovane donna!
   Che l’incisione fosse da correlare a un fatto particolare, nessun dubbio: la versione ufficiale che conoscevo era quella, riportata dal conte Vito Capialbi nella sua famosa silloge epigrafica: “Inscriptionum Vibonensium Specimen”, al n. 8.
  L’insigne studioso (che io ho appellato “Vanto della nostra terra” nel mio romanzo storico “Il segreto della ninfa Scrimbia”) poneva l’epigrafe cronologicamente nel XV secolo per motivi squisitamente linguistici.
   Cocodrilli al posto del classico Crocodrili agli occhi di un classicista risalta subito come un imbarbarimento e un termine d’uso volgare, così comeLacrymis al posto di Lachrymis. Anche l’occhio non esperto capisce che l’incisione non è di età romana.
  In primis, poichè si presenta incisa nel marmo con le lettere messe in risalto con l’inchiostro nero, e poi è pure posta a poca distanza della porta di sant’Antonio, una delle quattro porte che fungevano da antico accesso della cinta muraria angioina di Monteleone di Calabria (sec. XIII).
  Questa porta urbica oggi non esiste più, anche se viene ricordata in un’epigrafe murata in basso alla via, all’incrocio con il corso Umberto I. Nel Medio-evo era frequente collocare epigrafi e pezzi di statue antiche nelle vicinanze delle porte delle città medievali, ed è un fatto riscontrabile anche nei pressi dell’arco Marzano di Monteleone dove si trova un compatto corpus di epigrafi in latino di svariate età ( pubblicate da me nel mio saggio storico-epigrafico del 1992: “Il municipium di Vibo Valentia” ).
  L’epigrafe in questione, comunque, è posteriore alle mura d’età angioina: a credere al conte Vito Capialbi – così come facciamo – apparterrebbe al 1400.
  Per anni la si è voluta collegare – erroneamente – all’infeudamento da parte dei duchi Pignatelli di Monteleone, avvenuto però, tra storia e leggenda, nei primi anni del 1500, quindi nel XVI secolo. Solo che il Capialbi attribuisce l’epigrafe a un secolo prima ed io mi ragguaglio a lui.
  La piccola lapide troverebbe una spiegazione, alquanto misteriosa e stravagante, in una favola popolare: quella di un monaco agostiniano del vicino convento che divenne in età moderna un carcere, come detto. Il fatto che l’iscrizione fosse stata murata lì vicino ne sarebbe una conferma.
  Il complesso degli Agostiniani Calceati risale agli inizi del XV secolo, che è poi l’epoca della redazione epigrafica, a dar fede al Capialbi.
 Il monaco in questione si sarebbe chiamato Frà Gerolamo e si narra che fosse un tipo irritabile e solitario, poco propenso a stare con i confratelli.
  Si vociferava che trascorresse intere giornate in cella e che praticasse oscure pratiche, recitando formulari in greco antico e in latino: orbene in quell’epoca il greco antico, continuando in Calabria attraverso la cultura bizantina, era comunque poco conosciuto, molto meno del latino che, invece era la lingua ecclesiastica ufficiale.
  Probabilmente il monaco aveva pratica con antichi codici e manoscritti che non desiderava svelare a nessuno, perché ci si trovava in un’epoca di superstizione ed era facile esser accusati di stregoneria anche semplicemente se si citavano i sommi autori della paganità.
  Si narra che fra’ Girolamo, nel giustificarsi, affermava di recitare preghiere del primo cristianesimo, ma non si capisce bene perché lo facesse chiuso in cella e perché fosse scontroso e restio ad aprirsi ai suoi confratelli che lo esortavano a stare con loro, condividendo le ore canoniche.
  Fra’ Girolamo era un monaco davvero inusuale e destava sospetti, dentro e fuori il convento. Si sa che i borghigiani erano gente curiosa e poi la vita nei conventi scatenava la loro fantasia.
  Un giorno scoppiò una lite tra Fra’ Girolamo e un conventuale per futili motivi, che divenne un duro scontro, non solo verbale. L’irascibilità portò Fra’ Girolamo a esplodere in escandescenze e dovettero dividerlo dal monaco che lo accusava chissà di cosa ….
  Questo monaco, di cui ignoriamo il nome, peraltro giovanissimo, morì giorni dopo, per non precisati motivi, crollando di colpo mentre si stava recando in chiesa.
  Nel convento e nella rocca di Monteleone si diffuse la diceria che gli fosse toccata una terribile nemesi e che si fossero avverate le maledizioni scagliate da Fra’ Girolamo al nemico verso cui aveva scatenato la sua proverbiale iracondia: resta da spiegare perché tanta rabbia. Che il giovane monaco, curioso e impulsivo come possono esserlo i giovani, avesse scoperto uno dei tanti segreti celati da Fra’ Girolamo e che volesse ricattarlo?
  Passarono alcuni mesi, nei quali immaginiamo quante altre dicerie vennero agitate nei confronti dello strano monaco…. finchè s’imbattè pure lui nella stessa sorte di una morte improvvisa e non certo naturale.
  Il suo corpo venne trovato orribilmente martoriato alla testa dopo una caduta dalle scale. Almeno questa fu la versione ufficiale che venne data a quello che aveva tutta l’aria di essere un omicidio in piena regola. Roba da “Il nome della rosa”!
   Il popolino monteleonese aveva partecipato accoratamente alle vicende che si verificavano nel convento, ammantato di orrendi misteri e nel quale si erano verificate due morti che avevano tutta l’aria di essere state il risultato di fatti delittuosi. Anche perché il complesso degli Agostiniani era posto proprio nella rocca di Monteleone, alle falde del Castello che, allora, apparteneva ancora agli Angioini.
  La fantasia popolare non ha freni inibitori e non conosce ostacoli pur di andare a frugare tra fatti orribili per poi affermare le sue “verità”.
  Nacque così una diceria, cioè che, nel colmo della notte, sia nel convento sia nei vicoli della rocca, si udissero voci umane che blateravano parole incomprensibili, simili alle formule rituali pronunciate da Fra’ Girolamo e origliate dai monaci.
  Intanto la cella del frate era stata occupata da un nuovo monaco il quale notava l’avverarsi di strani fenomeni: le lucerne si accendevano da sole nel cuor della notte, il letto pareva tremare, il mobilio vibrava, le finestre si spalancavano.
  Era il chiaro segno di presenze arcane che si manifestavano all’ignaro inquilino della cella. Il priore dovette celebrare una laboriosa benedizione onde disinfestarla. Da allora non si verificarono più episodi simili nella cella, ma nei corridoi del convento si continuarono a udire singulti e vocii incomprensibili – si diceva che fossero recitationes in greco – e che facevano accelerare il passo dei conventuali e li portavano a mormorare scongiuri e preci per accattivarsi la vicinanza di Dio e stornare la funesta presenza di un’anima dannata.

LA FANCIULLA UCCISA

  Passano diversi anni, durante i quali non si perse memoria dei tragici eventi, ma di certo la paura manifestata agli inizi si andò affievolendo perché il tempo smussa, addolcisce e ottunde e il ricordo si fa meno vivo.
  Una sera, nel giorno in cui ricorreva l’anniversario della morte di Fra’ Girolamo, una bella e giovane popolana, che abitava vicino al convento, uditi gemiti e lamenti mentre stava per prender sonno, si levò dal letto per uscir fuori a capire da dove provenissero.
  La ragazza, incauta e nello stesso tempo ardimentosa, non conosceva bene la leggenda del frate agostiniano o, forse, non voleva crederci. Non sappiamo da quale forza misteriosa fosse spinta al punto da sfidare le tenebre.
  Il fatto è che, passa il tempo e non rientra a casa e la madre, terrorizzata dalla sua assenza, esce a cercarla.
  Grande fu il suo panico quando si accorse che, sulla strada maestra, il muro era rosso vivo!
  Abbassò lo sguardo e trovò il corpo della figlia disteso a terra in una pozza vermiglia! La veste era inzuppata dal sangue che le scorreva dalla bocca, la testa aveva subito percosse ed era orrendamente deformata.
  La ragazza avrà subito la più squallida delle violenze e, come se non bastasse, il suo carnefice volle trucidarla con indicibili torture.
  La madre disperata lanciò un acuto urlo di dolore e si sciolse in un lungo e penoso pianto che si irrorò per tutto il circondario. I popolani accorsero in frotte, agghiacciati da cotanto delitto sanguinario.
  La fine terribile della dolce fanciulla sconvolse la vita di tutti gli abitanti di Monteleone di Calabria che, il giorno dopo il funerale, avrebbero collocato l’epigrafe summenzionata proprio nel luogo in cui si era consumata la tragedia notturna, che era poi di fronte al convento degli Agostiniani Calceati.
  Essa sarebbe servita da avvertimento a quanti avrebbero udito pianti e urla strazianti in quel luogo, di cui non avrebbero dovuto mai curarsi per non seguire la stessa sorte dolorosa della fanciulla …

LA RIFLESSIONE

    Le vicende narrate sarebbero state messe per iscritto circa due secoli dopo da Giuseppe Capialbi, il primo storico monteleonese prima di Giuseppe Bisogni de Gatti.  Il racconto popolare pare fosse stato inserito nella “Historia Conventuum Montisleonensium”, incompiuta a causa della morte dell’autore, il cui manoscritto non è rintracciabile.
  E’ stata la memoria popolare a preservare dal naufragio questa strana e dolorosa storia.
  Tutt’ora, in alcune notti, salendo i gradini che conducono all’ingresso del convento abbandonato, vorremmo immaginarci strane voci e rumori … è il fascino del passato che torna a bussare alle porte della nostra immaginazione!
  Non è fantasia però la violenza su una donna del passato, la bella Anonima Monteleonese di cui ho rinvangato la tragica fine.
  Episodi di violenza verso le donne erano a quei tempi all’ordine del giorno e nessuno si sarebbe sognato di volerne lasciare testimonianza, a meno che non si trattasse di persone di un certo rango e di alto prestigio.
  Quanto si consumò nel borgo di Monteleone forse destò scalpore per la brutalità dell’assassinio, che oggi diremmo femminicidio.
  La memoria popolare, nel tentativo di non far dimenticare il fatto, volle collegarlo alle oscure voci che si erano agitate sul conto di un monaco poco attento alle regole conventuali e che aveva subito una strana sorte anni prima.
  Questo accade spesso nelle storie del volgo: corrispondenze, collegamenti, forzature, contaminazioni … disiecta membra – per usare un termine caro ad Eco – che appartengono al variegato mondo della storia.
  Infaticabile e operosa, la fantasia del popolo, non avendo a disposizione ne’ carta ne’ penna, inanella e destruttura, smonta e ricostruisce instancabile e mai sazia di stravaganze difficili a dimenticarsi. Ogni volta che trova qualcosa di misterioso, lo fa suo. In un rudere abbandonato, in una tomba profanata come in un tetto scoperchiato o in uno specchio rotto riesce a vedere spettri, vendette, malìe, sotterfugi. Anche le stesse voci della natura e degli animali diventano messaggi paranormali e emanazioni dell’aldilà. E poi si scorge il demonio dappertutto: in un gatto, in una civetta, in un galletto … basta che siano neri.
  Siamo comunque grati alle favole della plebe se riusciamo, come in questo caso, a riesumare una storia di violenza sulle donne, pur ammantata di mistero.
  Rimane, comunque, un monito per la povera ragazza come per tutte le “figlie della progenie di Eva” che diventano protagoniste di fiabe non sempre a lieto fine: a star attente e a non avventurarsi, da sole, di notte, per le oscure vie di un borgo. Sia che sentano la voce di un fantasma, sia quella, ben più reale, di un uomo che fingeva di amarle.
  E siamo grati ai luoghi e ai loro documenti se riusciamo a ricostruire flashback del nostro passato come questo “schizzo di vita” che, rispetto a un saggio storico, riesce sicuramente più ammaliante al lettore e piace di più, in quanto si tinge di quotidianità, per quanto tragica.
  E’ una pagina di cronaca giunta direttamente dal passato, tinta dei cupi colori di una quotidianità che, ieri come oggi, appartiene anche alla nostra terra: la morte di una giovane donna, sottoposta a violenze inenarrabili.
                                           Prof.ssa Maria Concetta Preta