Il femminicidio nella storia della Calabria del 1500

Maria Concetta Preta ricostruisce la violenza sulle donne nell’antica Calabria

                                                                                 

 

La prima ribelle: Elisabetta Survara (XVII secolo)

                                                                                   Non puoi subire sempre per paura
                                                                      (Dacia Maraini, Donne mie)
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  Che la Calabria sia stata sempre del sopruso e della sopraffazione, è dato di fatto. Ce lo dice la storia, passata e recente. Ce lo dicono i fatti di cronaca.

  Nel campo specifico della violenza sulle donne la Calabria l’anno scorso è balzata addirittura al sesto posto su scala nazionale in quanto al numero di donne uccise da chi “diceva di amarle”.
 La storia delle donne, anche in questa nostra terra, bella e amara, è costellata di dolore, come lo fu per tutti i deboli.
  Ho avviato recentemente alcune indagini storiche sulle figure delle “ribelli” nella Calabria del passato, che confluiranno in una futura pubblicazione, in cui metterò in luce una tipologia di donne diverse che, anche se non hanno fatto la differenza, hanno indicato una strada alternativa a quella segnata sin dalla nascita.
  Tra queste, voglio proporre ai miei fedeli lettori de “Il fatto di Pizzo” due storie che considero “esemplari”, pur con le differenze marcate.
  Questa settimana vi presento la prima di due, attestata in documenti d’archivio. E’ una storia di certo avvenuta e che fa molto riflettere: la vicenda di Elisabetta Survara, vissuta nel XVII secolo, che sopravvive alla violenza e denuncia il suo carnefice.
   La seconda appartiene alla tradizione orale, è un travestimento in forma di leggenda di un fatto sicuramente avvenuto, ma passato “di bocca in bocca” fino a diventare un racconto che ammonisce e spaventa. E’ un episodio di mistero e morte, legato a un’iscrizione criptica che si conserva nel centro storico di Vibo, antica Monteleone di Calabria. La giovane vittima è senza nome, la chiamerò “Anonima Monteleonese”.
STORIA DI ELISABETTA SURVARA (XVII Secolo d.C.)
  La sua vicenda, di primo acchito, ha innescato in me l’analogia con quella letteraria di Lucia Mondella, l’eroina de “I Promessi Sposi”.
  Nel 1600 in tutta l’Italia vigeva la legge del più forte e non era strano che si verificassero violenze sulle donne, come sui bambini o i servi.
  La cosa strana era quando, come nel caso di Elisabetta, ci fosse chi reagiva a questo stato di cose e aveva il coraggio di parlare.
  Ripensandoci, Elisabetta Survara è molto più vicina a Franca Viola, che a 18 anni, ad Alcamo (TR), negli anni ‘60 denuncia e fa arrestare Filippo Melodia, il pastore di 22 anni suo spasimante che l’aveva rapita e sedotta.
  Nel ‘66 Melodia viene condannato a 11 anni di reclusione, riconosciuto colpevole dei reati di ratto violento, violazione di domicilio, minaccia e violenza carnale e di altri commessi nei confronti dei parenti della giovane.
    A Molochiello, un casale che sarà distrutto dal terremoto del 5 febbraio 1783 e che si trovava tra le Serre meridionali e l’Aspromonte settentrionale, viveva nel 1630 una bella ragazza in età da marito, fiera come una madonna issata in processione, neri i capelli, altero il portamento, come una linea d’anfora i fianchi generosi, candido il petto di ricotta. Elisabetta Survara.
 Lo apprendiamo scorrendo i registri d’archivio, recanti gli atti processuali, e i protocolli del notaio Francesco Borghese di Terranova.
   Il 14 maggio 1631 Elisabetta denuncia l’abuso, già perpetrato l’anno precedente (riportato nell’atto XIX), da parte del Capitano Scambelluni.
  Ripercorriamo l’accaduto.
  Elisabetta viveva da sola nel casale di Molochiello e ciò destava scalpore. A quei tempi una donna così veniva considerata “leggera” o, quantomeno, equivoca. Donne così venivano etichettate come selvagge e magare, ossia streghe.
  Elisabetta forse non aveva scelto la solitudine: era rimasta sola al mondo. Infatti avrà perso i suoi familiari per colpa di epidemie, pestilenze, malarie, guerre.
  Non conosciamo il suo status sociale e neanche quello civile. Potrebbe essere stata sposata, aver perso il marito ed esser diventata vedova. Oppure essere, come ipotizzato, orfana di guerra. Poteva essere madre di figli.
  Si accorge di lei e del suo modo di vivere “sfacciato” il capitano del contado di Condoianni, che faceva parte del feudo di Castelvetere, un certo Salvatore Scambelluni. Avrà saputo di Elisabetta dalle dicerie dei contadini, l’avrà forse adocchiata alla fontana o alla fiera … chissà!
  Nel suo feudo – come in tutti gli altri della Calabria – le angherie, le violenze e i crimini erano di casa.
  In questo, in particolare, agiva il marchese G.B. Carafa, che era l’emissario del vicerè Toledo e sappiamo bene come la dominazione degli Spagnoli abbia ridotto il Meridione d’Italia nel ‘600.
  Don Scambelluni era il capitano d’armi, ossia il braccio militare del marchese Carafa e gli assomigliava in tutto. In più, era amante delle belle donne, e non se andava a cercare solo nelle locande malfamate o nei lupanari.
  La stesse residenze nobiliari pullulavano di cortigiane e di ruffiane. In più, bastava fare una semplice scorreria nelle campagne e trovare belle villanelle dal rapire per una notte “d’amore” al castello.
  Molte donne, poi, sceglievano spontaneamente la strada della prostituzione come della “dedizione” alla corte del signore, per sbarcare il lunario in un’epoca di estrema povertà.
  Non Elisabetta che aveva scelto di rimanere da sola e di vivere onestamente.
Al capitano Scambelluni ella appare come un frutto proibito da addentare.
 Per farla sua – ma non attraverso il semplice ratto – il signorotto, sorta di “Don Rodrigo calabrese”, utilizza, come spesso fa, una mezzana, tale Melchionna Manderano di Gerace, alla quale dà l’incarico di avvicinare Elisabetta, invitandola ad accettare le sue profferte e “a darsi” a lui come cortigiana. In seguito, lo stesso avrebbe provveduto a maritarla con un servitore del luogo.
  Si tratta una proposta “decente” che avrebbe potuta preservarla da mali peggiori: entrare nelle sue grazie era una forma di salvezza per una donna sola e soprattutto appetibile come lei.
  Ma Elisabetta è una “capatosta” che non accondiscende e respinge ogni avance che ripetutamente, sempre grazie a Melchionna, che si era presentata come una “salvatrice”, le viene fatta.
  Ciò rende lo Scambelluni ancora più tenace e, soprattutto, lo infuria. Come può una contadina comportarsi così?
  Deve fargliela pagare, se no perde pure la faccia con la gente del contado! Sempre con l’aiuto della mezzana, s’introduce nella casetta di Elisabetta con l’inganno.
  E’ Melchionna a imbastire la sceneggiata: ne avrà pensata una delle sue per farlo penetrare in casa della giovane che, inizialmente, non immagina cosa sarebbe accaduto. Si trattava di un semplice incontro per chiarire una volta per tutte.
  Poi, una volta entrato, visto che Elisabetta con le parole non si convince, il capitano agisce con la prepotenza. La Melchionna sparisce, rimangono da soli e lui la violenta.
  Così, tanto per fargliela pagare e ridurla al silenzio. O, spera lui, all’ assenso.
  Lo stupro non sarà un fatto episodico, ma si ripeterà, sempre nella casetta della donna che nulla può fare per reagire alla forza bruta.
  Al signorotto col tempo Elisabetta piace: è diversa dalle altre sue cortigiane, non si concede facilmente, tiene la testa alta e tutto ciò l’attizza.
  Arriverebbe pure a perdere la testa per una come lei!
  La cosa è grave di per sé, ma lo è ancor di più se pensiamo che la Survara viene lesa nel suo diritto di privacy perché la violenza è consumata a casa sua. Offesa nella sua dignità di donna e nella propria libertà perché le si viola il domicilio.
Il fatto, ormai risaputo dalla piccola comunità e divenuto di dominio pubblico, non desta scalpore perché episodi del genere erano frequentissimi, così come i sequestri di persona.
Alla fine, Elisabetta non ne può più. Autonomamente decide di reagire e lo fa affidandosi alla legge.
  Lo Scambelluni intuisce e minaccia la donna, ma ciò non la intimorisce e, vincendo la soggezione e la paura ma, soprattutto, la vergogna, Elisabetta si presenta ai sindacatori di Condoianni per denunciare il capitano.
  Non conosciamo l’esito della storia, è già tanto averne trovato una traccia scritta. Sì, perché “scripta manent”, mentre le parole volano via. E io scrivo per non far dimenticare.
  Dalle ceneri del passato della nostra terra, ho deciso di riesumare una donna “diversa” per l’epoca. Coraggiosa, ribelle, unica. Elisabetta Survara.
             Prof.ssa Maria Concetta Preta