Alla riscoperta dei miti della Magna Grecia: Kore

ninfa classicaMITI DELLA NOSTRA TERRA – Maria Concetta Preta

 

Kore – Persefone e l’area sacra del Còfino nell’antica Hipponion

                                                                         

  Con la “favola sacra” di Kore – che in greco antico vuol dire “fanciulla” – apro una serie di racconti mitologici della nostra terra, che fu la Magna Graecia e, in specifico, del nostro territorio, dal quale affiorano continuamente tanti resti archeologici atti ad avvalorare la presenza di quegli dei narrati nei miti.
 Questi racconti (appunto “mythoi” vuol dir proprio questo), testimoni inconfutabili, raccontano la Calabria, le sue bellezze naturali, il suo paesaggio, le sue origini.

  Arrivati a noi dalla profondità dei secoli, a volte ancora vivono nel nome dei luoghi, degli animali e delle cose della natura, e suonano ancor oggi straordinari nella loro semplicità e nel potere accattivante della fantasia in essi contenuta.
  Vediamo anzitutto cosa sia il mito: nel farlo, mi ricollego all’ incipit della mia pubblicazione “Scrimbia”, del 2014, nella quale, attraverso la metamorfosi della ninfa di Hipponion in fonte, ho ripreso un ciclo di canti latini d’epoca rinascimentale sorti in Monteleone, che ho riadattato sia in forma di fiaba mitologica, sia in forma versificata in tre liriche (appunto il mio “ciclo poetico” per Scrimbia).
  La parola “mito” deriva dal greco antico e significa prevalentemente “narrazione, racconto orale” e tratta per lo più storie di dei, eroi, personaggi favolosi. Le sue caratteristiche sono:
1. L’oralità, poiché quando i miti furono elaborati non esisteva la scrittura e venivano tramandati ab ore in ore (di bocca in bocca) da una generazione all’altra;
2. La sacralità, in quanto il mito era spesso legato a riti religiosi, a pratiche sacre giustificate dal racconto stesso;
3. La polivalenza, dato che il mito può avere diversi significati simbolici;
4. La “plasticità”, ossia il suo sostanziarsi in elementi concreti e il suo riproporsi nell’arco di epoche diverse, con continua rielaborazione e a seconda delle finalità che gli vengono assegnate dall’autore che lo rivisita e lo plasma a seconda delle sue esigenze;
5. L’aspetto conoscitivo e didascalico, ossia il racconto mitico in origine serviva per spiegare le origini dell’universo, la creazione del mondo, la nascita degli dei e la loro rivelazione agli uomini oppure i miti servivano a proporre all’uditorio “storie esemplari” in grado di dare insegnamenti da seguire;
6. L’atemporalità: il mito si è conservato per secoli, è giunto a noi, nonostante il suo carattere sacrale-religioso sia stato ridimensionato rispetto all’antichità.
  E’ indubbio che il mito sia da collegarsi ai luoghi, eterni depositari della storia e dell’identità di un popolo. La Calabria è terra di miti, ora connessi al mare, ora ai monti.
  Il mito che sto per narrarvi riguarda la terra, la sua profondità, le sue viscere… ma anche i suoi prati e le colline con i suoi mille colori e le sue voci. Su tutte, quella della colombella col suo dolce tubare che richiama l’amore.
  C’è una Calabria interna, fatta di silenzi millenari che è gigantesca e immutata: bastainerpicarsi su per i sentieri che attraverso i boschi portano alla montagna o scendere giù al fiume per risalire poi verso la sorgente per lasciarsi dietro il mondo con i suoi rumori ed i suoi problemi ed entrare in un’altra dimensione, fare un salto indietro nel tempo.
 Basta lasciare che gli alberi con le loro cime lanciate verso il cielo ed il gorgoglio delle fresche cascate ci sussurrino dolcemente all’orecchio della vita di dei e di splendide fanciulle, di animali che vivono qui da millenni e che ci osservano, saggi ed impassibili dall’alto dei rami o da dietro i cespugli del sottobosco.
  La Calabria è terra dell’infinito sedimentato nei secoli: in essa i luoghi parlano e raccontano una storia antica e nuova, basta porgere l’orecchio al sussurro delle acque, allo stormire del vento tra i rami, all’eco dei millenni emanata tra valloni e grotte di pietre ancor “parlanti”.
Uno di questi luoghi millenari è l’area detta “del Còfino” che si trova nella parte alta dell’antica Hipponion, nei pressi dell’attuale cimitero e del Castello normanno-svevo.
  Un tempo era occupato da una fitta vegetazione (macchia mediterranea), con sorgive, cascatelle e boschetti di lecci. Ancor oggi possiede qualcosa di magico e trasuda di un alone di mistero e sacralità, di un senso dell’arcano penetrante proprio come l’olezzo dei fiori di campo che immortalarono Hipponion “sede di prati rigogliosi di viole e narcisi” e dell’opulento “Corno di Amalthea” per la ricchezza delle primizie e l’amenità del paesaggio. L’appellativo è rimasto nei secoli, se pensiamo che fino agli anni ’70 la città fu detta “Giardino sul mare”.
  Scoperte archeologiche passate e recenti sembrano restituirci nella sua interezza la sacralità e l’impareggiabile bellezza del luogo dove riposano i morti e, se si presta attenzione, dai boschi delle vicine Serre giunge il richiamo della “fassa”, cioè la colomba, legata a un mito magnogreco. Esso narra di una colomba selvatica mutata in una splendida fanciulla: Kore, venerata tra il VI e IV secolo a.C. col nome di Persephone dallo Jonio al Tirreno e sull’altipiano delle Serre e, dunque, in Hipponion che di quest’area era il caposaldo.
  A Locri, dove più forte era il suo culto, e che fu la fondatrice della sub-colonia di Hipponion nel VI sec. a.C., le erano devote le vergini (parthenoi) prossime alle nozze e la sua storia è documentata anche nei “pinakes”, tavolette di argilla con disegni impressi a rilievo, ritrovate in gran quantità negli scavi di Hipponion, con iconografie che ricalcavano le matrici locresi ma sicuramente fatte in loco.
  Su queste è scritta la storia di Kore e della colomba, semplice nella sua origine ma profonda e “filosofica”. Il colombaccio  – palumbus – è un docile volatile che, naturalmente, predilige i campi di grano e con il suo verso profondo, la voce appunto o, per meglio dire, la phoné, preannuncia la primavera ed il maturare delle spighe.
   Da qui la favola di questo volatile caro a Demetra, dea delle messi, mutato in Kore, sua figlia, che in tutto il Mediterraneo, con diverse similitudini, assume il nome di “Persefone” o “Perifoneia” o “Perifassa”, che racchiude in sè la “phonè” ed il nome stesso del volatile, la “fassa”.
   Vediamo come questo racconto si incrocia con quello del “ratto di Kore”, tanto sentito in
Hipponion e immortalato sulle sue pinakes, trovate in gran numero insieme agli ex-voto (offerte votive) raffiguranti la colombella, portati in dono alle dee madre e figlia.
   Kore, bellissima fanciulla figlia di Zeus e Demetra, era stata destinata in matrimonio, dal padre ed all’insaputa della madre Demetra, ad Ade signore degli Inferi e zio della fanciulla. 
  In un giorno di primavera, mentre la fanciulla raccoglie fiori insieme alle sue compagne ninfe, Gaia (Gea), la madre terra, fa spuntare davanti alle sue mani un magnifico e profumatissimo narciso, fiore del sonno e della morte ma anche della rinascita (poiché la sua fioritura preannuncia la primavera).    La fanciulla, colpita dalla bellezza e dall’intenso profumo del fiore, si china a raccoglierlo quando si apre la terra e dalle sue profondità sbuca sul suo carro Ade, il cui nome significa “senza via di uscita”, che la rapisce portandola nel suo regno e facendo di lei la regina dei morti con nome di Persephone per i Greci e Proserpina per i Latini.

  La fanciulla invoca disperatamente quanto inutilmente sia il padre che la madre, ma nessuno sente la sua voce.  Demetra si mette alla sua ricerca e, saputo del rapimento, implora Zeus, minacciando carestie, finché il re dell’Olimpo ed Ade non decidono che Persefone torni sulla terra a riabbracciare la madre e giocare con le altre fanciulle quando spunta la prima spiga, fiorisce il narciso e torna il tubare della colomba, cioè dall’inizio della primavera, per ritornare nel regno degli inferi alla fine dell’autunno quando non ci saranno più fiori e la “fassa” ritornerà nei boschi.
  Una stupefacente testimonianza della presenza della colombella nel nostro territorio montano è data dal toponimo “Cucurucà” al piano Melìa vicino allo Zomaro: esso riproduce esattamente il verso di questo volatile e contrassegna una profonda vallata, molto accidentata e quasi inaccessibile, sul cui fondo si innalza una collina coperta di lecci secolari, ancora oggi rifugio delle colombe.
  Ma anche il toponimo del territorio vibonese “Coccorino” ha valore onomatopeico e potrebbe ricollegarsi alla presenza di colombelle campagnole.
   Ad Hipponion, inoltre, lo storico e geografo greco antico Strabone di Amasea ambienta il rapimento di Kore da parte di Ade: la ragazza stava proprio raccogliendo fiori proprio su uno dei prati del Còfino con le amiche ninfe quando venne rapita dal dio dell’oltretomba.
  In Hipponion – narrano gli storici come Strabone e Duride di Samo – era tradizione che le donne, in occasione delle festività popolari connesse alla fertilità della terra e alla fecondità femminile, si cingessero i capelli con corone fatte di questi fiori multicolori che, al loro sbocciare, annunciavano la primavera e il ritorno di Persefone dagli Inferi per ricongiungersi alla madre, protettrice delle messi.
  Le ghirlande erano un modo per salutare il ritorno della dea sulla terra, insieme alla primavera e la risveglio della natura.
  Zeus, convinto da Demetra piangente, aveva fatto di tutto per riportare la figlia sulla terra ma, avendo ella gustato il melograno (frutto dell’amore, che in genere veniva dato in dono agli sposi per propiziare una splendida prole) dovette fare un compromesso col fratello Plutone, che avrebbe trattenuto Kore per la durata dell’inverno con sé.
  Dalle favissae di Hipponion (fosse votive) è pure emersa una quantità enorme di ex-voto fittili raffiguranti il melograno, il frutto della passione.
  Tutto ciò avvalora la spettacolarità dell’area del Còfino. L’etimologia greca del nome, è “CANESTRO”: immaginiamo quanti e quali fiori e frutti di questo paesaggio delle delizie riempissero le ceste che le donne hipponiati usavano portare sulla testa, durante la processione in salita (anabasi) verso il tempio di Demetra e Kore, per farne offerta consacrata alle dee poliadiche.
  Il Còfino infatti si trova nella parte più alta dell’antica polis greca che raggiunge i 500 metri sul livello del mare: per la sua posizione amena e, al tempo stesso, strategica, era stato prescelto per la costruzione di un santuario protetto naturalmente da una profonda vallata e nascosto da un fitto bosco sacro, irrorato da sorgive di acqua perenne e incontaminata, di cui erano custodi le ninfe dette Naiadi: tra loro vi era Scrimbia, benigna protettrice delle fonti hipponiati e legata a un mito di amore, morte e rinascita.
 In antichità si soleva dire che l’enorme tempio del Còfino fungesse da faro per la terra come il vulcano Stromboli per il mare, e ciò perché era stato ubicato in un posto veramente speciale, che si apre su un panorama immenso che comprende propaggini della Calabria e della Sicilia: dall’isola di Dino alla Sila, dalla vetta del Dolcedorme alla valle del Mesima, dalle Serre all’Aspromonte, dalle pendici dell’Etna ai monti Nebrodi, alle isole Eolie.
  Ma, visto che non bastano le fonti storiche antiche, le leggende mitologiche, i toponimi e la malìa del paesaggio, occorrono le prove certe che solo l’indagine archeologica può dare.
  Nel 2015, grazie ad un progetto elaborato dal Comune di Vibo Valentia e dalla Soprintendenza Archeologia della Calabria, sono stati reperiti fondi per un totale di tre milioni di euro dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, volti alla realizzazione del tanto atteso “Parco Archeologico urbano di Hipponion-Vibo Valentia”.
  I primi interventi previsti hanno avuto inizio a Settembre proprio presso l’area sacra del Cófino, lungo via Croce di Nivera.
  Sembra dunque prossimo a compiersi un percorso iniziato nell’estate del 1921, quando – come afferma Paolo Orsi – ”sulla vetta dell’altura del Cófino dopo oltre due settimane di lavoro di trincee”venne alla luce un tempio ionico.
   Oltre al tempio Orsi effettuò altri rinvenimenti, ossessionato dal desiderio di trovare un santuario sull’altura di Cófino, dove tutto sembrava indicarlo: il luogo, il paesaggio, il panorama, le delizie di cui vi ho parlato.
  L’ispettore alle Antichità il marchese Gagliardi aveva fornito un ulteriore indizio di esso con gli avanzi di una piccola favissa di terrecotte sacre, rinvenute in un taglio stradale in tutta prossimità del sito, dove poi il tempio venne in luce. Ed alla ricerca delle favisse Orsi dedicò tempo e denaro. Solcò con trincee la vetta del colle di Cófino, e mise mano a una di tali favisse.
  Le ricerche sull’altura del Cófino proseguirono successivamente negli anni ’70 del secolo scorso con gli ispettori di Soprintendenza Ermanno Antonio Arslan e Claudio Sabbione, che ebbero più fortuna nell’individuazione di favisse, questa volta molte ricche di oggetti votivi. Sempre in questo periodo vennero alla luce diverse strutture, una di esse risaliva al VI secolo a.C, e sembrava riferibile ad un più antico edificio di culto: si tratta non di un semplice tempio, ma di un santuario con più strutture sacre.
  In altri punti si effettuarono scoperte significative: una struttura di età ellenistica posta sopra un deposito votivo di età anteriore e poco distante la statua marmorea femminile acefala oggi esposta al Museo Archeologico “Vito Capialbi” di Vibo Valentia. Una serie di altri rinvenimenti si ebbe durante la realizzazione del complesso abitativo popolare attualmente limitrofo all’area oggi interessata agli scavi, con strutture realizzate alla fine del V secolo a. C., fra i quali spicca un possente muro in blocchi di arenaria. In un’area quasi attigua si rinvennero fosse ricolme di materiale votivo: statuette, protomi femminili, pínakes , gioielli, oggetti per la cosmesi, modellini fittili di tempio e vasi.
  Sulla base di quanto è stato rinvenuto, e che va a suffragare le leggende e le tradizioni orali, si è accertato che dal VI sec. fino all’inizio del IV sec. a.C., il culto praticato all’interno del santuario è quello di Kore-Persephone, cui dall’età successiva si affianca quello della madre Demetra, attestato dalle numerose statuette fittili della dea con fiaccole e porcellino.
   Dopo quasi un secolo dalla scoperta di Orsi e a decenni da quelle successive, finalmente la via verso la valorizzazione di questo fondamentale sito archeologico della città sembra ormai tracciata. Nonostante si tratti solo del basamento dell’edificio, si percepisce subito la grandiosità del tempio greco, una sorta dipseudodiptero, con una peristasi di 8 colonne sul lato corto e 12 sul lato lungo e una cella con due colonne in antis all’accesso.
  Il tempio subì un restauro all’inizio del III secolo a.C, connesso dai più al periodo in cui il tiranno di Siracusa Agatocle ebbe la meglio su Hipponion: questo sembra essere attestato dagli elementi architettonici in calcare rinvenuti da Orsi databili alla stessa epoca.

   Il progetto di conservazione, recupero, salvaguardia e valorizzazione, prevede il restauro delle strutture rinvenute sul Cófino e la loro copertura protettiva; è prevista inoltre la realizzazione di un percorso, che unifica fra di essi i vari rinvenimenti e li ricongiunge con il tracciato stradale. Lo stesso progetto interessa anche altre aree archeologiche del comune di Vibo Valentia come pure il Castello di Bivona: si tratta dell’attesissimo Parco Archeologico urbano e territoriale.

Kore mentre raccoglie fiori nei prati di Hipponion.