Angela, la Malandrina – Storia di brigantaggio e Libertà di Titti Preta – ESTRATTO

ANGELA LA MALANDRINA: UN’ACCUSA ALLA STORIOGRAFIA UFFICIALE, LA STORIA DALLA PARTE DEGLI UMILI, MAI VINTI, LA VOCE DI UNA DONNA DALLA COLTRE DELLA DIMENTICANZA: UNA BRIGANTESSA DELLA SILA E DEL POLLINO

 

 

E’ la vicenda di Angela, una contadina calabrese della seconda metà dell’800 che cerca la liberazione da un ambiente familiare triste e retrivo in cui vige la legge del padre-padrone e le donne sono sottomesse al suo volere.

Da quest’”orrida bicocca” la sedicenne Angela, che volutamente tace il suo cognome, decide di fuggire per intraprendere una strada verso l’ignoto e che la porterà lontano, oltre i limiti del suo immaginario, verso quella che lei crede essere la strada per la sua libertà: il brigantaggio.

Ne consegue un’avventura umana prim’ancora che epica, in cui è preponderante il tema del riscatto della donna, da sempre eterna esclusa dalla storia, oltreché incompresa, rifiutata, condannata prim’ancora di agire, di compiere una qualsiasi azione, com’era tipico in quei tempi, e non solo al Sud.

I toni del racconto sono ora flebili e teneri, specie quando si parla di paesaggio, sentimento, amore, solidarietà… ora tesi e marcati quando irrompe la storia al punto che l’opera si risolve in un vero e proprio “atto d’accusa” contro la politica del tempo, condotto lucidamente su due fronti:

– quello dell’azione materiale, attraverso la scelta di Angela, assolutamente priva di coercizioni, di imbracciare una schioppetta e seminare terrore per i boschi della Sila e del Pollino: cioè Angela decide di darsi alla macchia per reagire a un sistema di potere calato dall’alto, lei come tantissimi altri e altre che parteciparono al movimento del brigantaggio politico nell’estremo lembo della penisola, dopo lo Sbarco dei Mille e l’Unificazione d’Italia;

– quello del sentimento e della riflessione profonda che porta Angela a interrogarsi continuamente sul suo “Hic et Nunc”, sul suo stato in essere, sulla sua situazione chiedendosi: Chi sono io? Cosa faccio? Dove mi trovo? Dove andrò? Riuscendo a mettere in discussione persino la sua scelta autonoma.

Il personaggio è dunque in continuo divenire, in fieri: è il prototipo della ribelle, che rifiuta la staticità di una condizione imposta e decidere di imprimere una svolta consapevole della quale dovrà accettare i rischi, le paure, i dubbi.

L’opera, quanto mai densa e “concentrata” si risolve in una sorta di “ J’accuse” in cui si intersecano continuamente i due piani dell’opera: quello esterno ad Angela e quello interno, relativo al suo animo fiero e irriducibile.

Il primo monito è la critica alla storia e ai suoi personaggi consacrati, figure intoccabili che nei tomi appaiono come eroi della nazione italiana, i facitori del nuovo ordine raggiunto dopo le sanguinose lotte risorgimentali

Il secondo moto d’accusa è quello dell’auto-critica che sposta l’attenzione alla vicenda umana e intima di una donna atipica, una battagliera, una pasionaria che pretende di avere il suo ruolo nella storia e che farà di tutto per diventare “tristemente famosa, andando contro la sua vera natura” (così si legge nell’incipit).

E’ questa duplicità fusa in un’essenza a rendere avvincente l’ultima fatica letteraria dell’A. che dedica, ancora una volta, il suo lavoro ai giovani perché apprendano e giudichino senza remore e veti, esplicitando nella prefazione le motivazioni.

Un’opera riflessiva e critica dunque, che pone sul banco degli imputati l’astratta formula dell’ “Historia magistra vitae est” e dei suoi eroi ufficiali.

Si coglie sin dall’incipit, che funge da auto-presentazione dell’eroina (in fondo il racconto è svolto tutto in prima persona, è un modo per avvalorare l’identità del personaggio e la sua consapevolezza dell’agire): qui cogliamo la critica più feroce e profonda alla formula citata a volte troppo distrattamente, proprio quando leggiamo: “La storia è maestra di errori e scelleratezze, portatrice di nefandezze, dispensatrice di pregiudizi”. oppure: “Le reticenze le appartengono e pure le falsità”.

Sono affermazioni lapidarie, quasi oracolari che sfatano un dogma e che costituiscono l’asserto da cui l’A. è partita, delineando un ritratto femminile trasgressivo e controcorrente, nella maniera in cui a lei piace. Ricordiamo, infatti la galleria di “donne di carta” da lei creata in Rosaria, detta Priscilla, Storie di violenza e femminicidio. La scelta del monologo, in quei racconti come in questo, non è certo casuale…

PRFAZIONE DELL’AUTIRCE:

  La prima volta che ho sentito parlare dei briganti fu a sette anni, per bocca di mio nonno, che idolatrava il famoso brigante Musolino. Da allora, mi interessai ai loro cupi racconti mescolati alla leggenda, soprattutto attraverso la tv, il cinema, la letteratura.

Mi colpì molto la storia del Vizzarro che il compianto scrittore-giornalista di Vazzano (VV) Sharo Gambino portò alla ribalta con un’opera teatrale da cui fu tratto un radio-dramma. Poi, nell’81, a istruirmi più di un libro di storia, vidi lo sceneggiato televisivo “L’eredità della priora”, tratto dall’omonimo romanzo storico di Carlo Alianello, e mi appassionai alle struggenti ballate di Eugenio Bennato, moderno cantore di un’epica popolare i cui echi erano sparsi per le contrade del Sud.

Crebbe pian piano in me, parallelamente alla riscoperta storica del fenomeno del brigantaggio post-unitario, il desiderio di dare in futuro un mio contributo. Mi stupii del fatto che di quest’ “epopea dei dimenticati e dei reietti della Storia” facessero parte pure le donne, oltraggiate due volte: perché fuorilegge e perché, appunto, donne.

D’altro canto a scuola non avevo mai letto qualcosa di veramente interessante sui briganti, che non fosse la sbrigativa vulgata storiografica arcinota, fortunatamente ormai rivista e corretta.

Come frettoloso era pure lo schema mentale di chi, distratto conquistatore o viaggiatore mitteleuropeo alle prese con la terra del Sud, non aveva alcuna predisposizione a comprendere una cultura differente, anzi la denigrava e la congedava come primitiva e selvaggia condizione dello spirito, come deficit di progresso, come manifestazione negativa di una storia di sottosviluppo.

Dopo la spedizione dei Mille e l’Unità d’Italia, il Sud fu sconvolto da scontri tra l’esercito regio italiano e gli insurrezionalisti, per lo più braccianti disperati e militari dell’esercito borbonico. I briganti vennero sostenuti dal governo borbonico in esilio, appoggiato dalla Spagna. Si agitò una vera e propria guerra civile in cui non si evitarono stermini di massa, decimazione, rappresaglie, finché il brigantaggio non venne represso.

Immaginiamo come le plebi meridionali dovevano apparire ai soldati del nuovo re, sbrigativi come tutti i militari, assolutamente indisponibili a comprendere le ragioni di chi andavano fucilando. L’incomprensione e la chiusura verso quegli uomini definiti “cafoni” e verso quelli classificati come “briganti” è il punto di partenza per ogni rifiuto. Ancora più netto, se si tratta di donne.

Con questo racconto, epico ed appassionante, fuori dal tempo e dagli schemi, colgo l’occasione di ricordare un segmento di storia dimenticato o taciuto che vale la pena di richiamare alla ribalta, soprattutto per i giovani: i miei figli in primis, quindi i miei allievi liceali.

Nei libri in cui io studiai, la retorica dell’ufficialità presentava i vari Cavour, Vittorio Emanuele e Garibaldi come mostri sacri, eroi patri intoccabili che abbattono squallidi avversari dai nomi sbiaditi, cioè i briganti: indecorosi avversari su cui trionfare, al servizio del re borbonico pavido e insignificante.

Per tanto, troppo tempo, si è poi alimentata sulla Calabria una leggenda nefasta, specie da parte di una certa scienza positivista che ne ha restituita un’immagine rozza e sanguinaria, contrassegnata dalla superstizione e da una maledizione misteriosa che spingeva al crimine, al misfatto, all’inciviltà. Essa era il territorio selvaggio per antonomasia, abitato da gente primitiva e feroce, un punto nero sulla carta geografica che per molti viaggiatori rappresentava un confine da non attraversare su cui era inciso: “Hic sunt leones”.  Terra barbara di briganti, “eroi di coltello” (malandrini), gente di malaffare e selvaggi abbruttiti dalla miseria. Quasi impossibile sfatare questo mito, i cui residui talora permangono.

E’ ormai risaputo che i briganti furono anche appassionati patrioti, assetati di indipendenza, intolleranti dello straniero che calpestava con arroganza il loro suolo, come il generale Reyner, mandato da Giuseppe Bonaparte a domare la Calabria. Essi vanno sottratti all’anonimato e riconsegnati alla storia, anche se furono perdenti battuti due volte: dalla ragione delle armi e dalle ragioni della politica. La loro sconfitta è uno degli antefatti dell’umiliante Questione meridionale e riguarda direttamente tutti noi abitanti del Sud, che abbiamo il dovere di ricordare e di far conoscere alle nuove generazioni le proprie radici. In veste di formatrice culturale, ho sentito il dovere di farlo attraverso la mia indole narrativa.

La storiografia risorgimentale ha presentato i briganti dalla parte del male, sminuiti e offesi come criminali. La letteratura dell’epoca e i melodrammi fecero poco per riabilitarli, raramente li hanno offerti nella loro interezza, con le loro pulsioni, i loro sogni, le loro ragioni. Solo la tradizione favolistica orale, così come i canti, tutti di matrice popolare, ne ha dato un’immagine fresca, sincera, veritiera. La cinematografia li ha esaltati in maniera ora languida e patetica ora efferata e sanguinaria.

Un libro che mi ha insegnato molto, svestito com’è di ogni retorica, è stato “Il brigante” di Giuseppe Berto, che invito tutti a leggere. Un bel film, punito da una censura di regime solo qualche anno fa (1999), è quello di Pasquale Squitieri dal titolo: “Li chiamarono … briganti!”, la cui uscita nelle sale cinematografiche fu boicottata.

I briganti dai nomi vituperati, dai volti straziati dalla lotta e dalle fucilate, ci raccontano una storia diversa e ci suggeriscono nobiltà e coraggio. Essi esigono rispetto da noi.

Ormai molto si è scritto per recuperare il senso del brigantaggio postunitario e successivo ed io non posso aggiungere niente di nuovo a quanto risaputo.

Come autrice del Sud, intendo offrire la mia divagazione letteraria sul fenomeno, usando toni ora flebili e teneri, ora più sentiti e marcati per un vero e proprio “atto di accusa”. Per farlo, ho scelto la voce di chi sento più vicina a me: quella di una donna, da sempre l’eterna esclusa e incompresa dalla storia.

Tante furono le donne che parteciparono al grande brigantaggio politico che sconvolse il Sud Italia dopo lo sbarco dei Mille e l’Unificazione della penisola. Una di loro è la protagonista del racconto: Angela, detta Malandrina che, spinta dal desiderio di emanciparsi o, meglio, di liberarsi dalle catene imposte dalla famiglia patriarcale, indossa i calzoni e impugna un fucile, seminando la morte nei boschi della Sila e del Pollino. Una rischiosa trasgressione narrata senza pudore, a cuore aperto, e che pagherà a caro prezzo.

Quello che viene presentato è quasi un reportage-diario di una vita avventurosa con una folla di personaggi, luoghi e scene realistici, ma anche piena di sensazioni e stati d’animo inconcepibili in una donna di quei tempi tristi e bui.

E’ un viaggio in una Calabria sconosciuta, avventurosa e ribelle. Parimenti un cammino verso la libertà, irto di insidie, trappole, sconfitte per un personaggio unico che, nel narrare la sua vita, la sottrae all’oblio.

 

 

Il sangue è passato

 

Il sangue è passato ancora

su una terra bella e amara.

La morte s’è fatta destino,

lo sfregio e l’abominio,

son diventati storia

da imparare a memoria.

La lama ha trapassato il padre

sotto le lacrime dei figli,

dei parenti, delle mogli.

Nasce l’Italia con rabbia e rancore,

con cittadini privati dell’onore.

Verranno poi terre lontane e bastimenti

per scordare insulti e tradimenti,

umiliazioni, lacrime e tormenti,

ferite aperte sotto l’acqua e il sole.

Un grido senza voce attraversa le città,

un pensiero senza nome vola nella notte …

Gente senza pace troverà in queste parole

tutta la verità che non vuol dire

e il canto per la dignità e il coraggio

di chi lottò fino alla morte:

uomini e donne, e furon tanti!

Essi hanno un nome, quello di briganti.

 

 

Maria Concetta Preta