…PERCHE’ IL SUD NON E’ MORTO -M.Concetta Preta recensisce “LA MALAPARENTELA” DI NATALE SACCA’

M.Concetta Preta recensisce “LA MALAPARENTELA” DI NATALE SACCA’

…PERCHE’ IL SUD NON E’ MORTO

 

Natale Saccà, l’autore del racconto “La malapa9788890841033_0_0_300_80rentela” (sottotitolo: “Per dispetto vi amo tutti”), Talos edizioni, è un noto gastroenterologo calabrese: dunque un medico-scrittore, secondo una costumanza ormai desueta che affonda le radici in un’epoca in cui la cultura umanistica non era scissa da quella scientifica. Ormai è quasi del tutto tramontata questa figura di medico che si diletta nella scrittura: averlo trovato è stato per me la prima forma di interesse.

E’ il suo un racconto lineare nel suo plot. Il suo punto di forza è la facile presa. Adatto a un pubblico eterogeneo e senza eccessive pretese, com’è giusto che sia quando attribuiamo alla scrittura il crisma della democraticità, fondamentale per avvicinare i lettori all’opera, non per allontanarli. Se poi riusciamo ad avvincerli, meglio ancora.

Avvincente non sarà un racconto così, perché non possiede l’incastro di un giallo o l’intreccio di un mystery o l’intrigo di un noir. Non c’è neanche l’avventura e la suspense. Però si legge d’un fiato e, soprattutto, si desidera sapere “come andrà a finire”.

Il titolo, di primo acchito e finché non ho capito il neologismo coniato dall’A. – e che appartiene al gergo –   mi ha un po’ incuriosita. Mi aspettavo una saga alla maniera de “I cari parenti” di Saverio Strati … e mi sono trovata catapultata nelle corsie dell’Ospedale Pugliese di Catanzaro, a tu per tu con i camici bianchi e, soprattutto, con le divise degli infermieri, che sono i veri protagonisti. Quelli che ogni giorno devono cimentarsi con il vituperio dei parenti del malato pronti ad accusarli, criticarli, denigrarli pubblicamente o meno, ritenendoli colpevoli di ogni guaio occorso al proprio congiunto ricoverato. Ecco cosa dice l’A. in merito:

“  Spesso, i familiari dei pazienti si dimostrano aggressivi verso gli infermieri per qualunque problema. La mancanza del posto letto, il vitto ritenuto scadente, l’orario delle visite, la gravità delle condizioni del paziente. Qualunque cosa viene rovesciata sulla divisa bianca senza camice, la divisa qualunque, non importante, la divisa che non può e non deve rispondere, che deve assorbire tutto. Divisa “spugna”, viene definita dagli infermieri, mentre la divisa bianca con camice è quella nobile dei medici. “ (cit. pag. 20)

E mi sono poi ancora stupita del fatto che l’A. non abbia scritto in maniera autoreferenziale, cioè rendendo protagonista un medico quale lui è, ma la categoria intermedia tra medici e pazienti, quella degli “angeli tra le corsie”.  Ho capito che l’ha fatto perché quella dell’infermiere è la categoria più “tragica” e sofferente nei nosocomi, che vive giorno per giorno sulla sua pelle crucci, ansie, delusioni… quindi si prestava a una riduzione letteraria maggiore e, soprattutto, si poteva “caricare” di drammaticità e di un certo “patetismo”, senza però creare la caricatura dell’infermiere-modello.

E’ così che sono stilizzati dall’A. i suoi infermieri, in primis Fabiana e Stefano, le cui “storie parallele” si intrecciano e vanno a combaciare in un momento in cui la sorte fa capolino nelle loro vite ordinarie di “eroi del quotidiano”, stretti tra urgenze familiari, delusioni, ritmi di lavoro infernali, routine… e il disprezzo dei parenti degli ammalati, che invece loro in tutti i sacrosanti modi si sforzano di comprendere e di tollerare (riuscendo talora mielosi in questa veste “sovrumana” … ma gli eroi in quanto tali – devono “andare oltre” e riuscire “incredibili”  ai nostri occhi!).

Assicurato il parossismo inverosimile tipico degli eroi, l’A. ci immette in una trincea di guerra: la corsia ospedaliera dove si combatte e ci si immola in nome dell’amore per il prossimo, lottando contro la malattia.

Il ritratto degli infermieri sarà manieristico e piuttosto stereotipato, ma “romantico”: poco riscontrabile nella realtà, però convincente perché il racconto ha un fine didascalico e deve riuscire edificante.

Fabiana, la protagonista, è il personaggio per me “paradossale”, cioè incredibile, almeno per come viene presentata nella prima parte.

“ Quel bianco era stato un sogno per lei come per tanti suoi colleghi, il bianco di una umanità che esiste ancora” : citazione che svela un idealismo cui vorremmo essere portati a credere, assegnando il senso della missione al lavoro tra le corsie ospedaliere… salvo poi, nel proseguo, assistere alla sua evoluzione intima e all’affiorare dei desideri di donna che ce la rendono più verosimigliante e, per fortuna, umana.

Anche Stefano – alter ego di Fabiana di sesso maschile –  inizialmente appare edulcorato ed “eroico” pur nei suoi panni dimessi, (eroe ordinario, alla maniera dei “Poveri amanti” di Vasco Pratolini, cui a mio avviso per certi versi il racconto di Saccà può essere considerato “un epigono dei nostri giorni”) e ci porta a soffrire con lui per il suo dramma dell’epatite B (contratta in seguito a un rapporto clandestino … come a dire: “Le sciagure colpiscono sempre i Buoni! “)

Accanto alla categoria dei Buoni – Lui e Lei che alla fine coronano il classico sogno d’amore – c’è il “cattivo” o l’anti-eroe: Piero, ex marito di Fabiana. Traditore, fedifrago, recidivo… un condensato di vizi. Per me, il personaggio più riuscito nella sua freddezza, e soprattutto meno permeato di “buonismo a tutti i costi”.

Chi disse che, spesso, nei racconti ricordiamo più i cattivi che i buoni, non sbagliò: come dimenticare il terribile Don Rodrigo manzoniano che ha accompagnato le sofferte letture scolastiche de “I promessi sposi?” o l’interminabile galleria dei dannati di Dante nel girone dell’Inferno, la cantica più passionale e umana della Divina Commedia?

I personaggi “scomodi” – nella letteratura come nei film – sono funzionali al trionfo del bene e della giustizia, servono a creare il prototipo eroico. Senza di loro non ci sarebbe il pathos – o batticuore – che ci aspettiamo dalla letteratura “drammatica”, ossia mimetica della realtà. Perché l’ordine delle cose si ricomponga è necessario il loro ravvedimento… ed ecco sopraggiungere il lieto fine. Se questa loro scelta arrivi dall’alto dei cieli o sia un percorso filosofico-esistenziale (come si spera) … sta a noi capirlo, leggendo e riflettendo sulla funzione del Male, senza il quale non esisterebbe la categoria del Bene.

Alla luce di quanto mi ha colpita, il genere in cui lo inserisco “La malaparentela” è quello del “piccolo dramma proletario” o racconto realistico che ebbe il suo massimo fulgore nei primi del 900 in Italia, in Francia ancor prima, teso a indagare tra le pieghe dell’anima degli innumerevoli “Signor Nessuno” che costituiscono la società viva di un angolo del Sud cui essi – e l’A. stesso – appartengono. Un Sud non piagnone e contadino, ma alacre e urbano quello dell’A.: la sua città, Catanzaro, cui viene tributato, con affettivo slancio, un simpatico cameo descrittivo in cui si parla delle sue vie anguste, del vento, del parco della Biodiversità.

Un Sud inedito, che opera, lavora, ama, odia, impreca, lotta … comunque che vive, palpita, commuove, educa.

…Perché il Sud non è morto. E lo dimostrano i piccoli grandi eroi di ogni giorno ritratti nel racconto di Natale Saccà.

Prof.ssa Maria Concetta Preta