Ricordo di uno scrittore calabrese: Lino Daniele- “L’intellettuale disoccupato”

In occasione dell’Omaggio che gli è stato fatto alla Mostra International Contemporary Art a Tropea (8 –  22 agosto presso il Portico del Museo Diocesano), nella quale ho presentato il mio giallo noir La signora del Pavone blu) e animata da perenne affetto, propongo ai miei fedeli lettori una mia recensione su uno scrittore della nostra terra, nato ad Arena, vissuto a Tropea, facente parte del comitato proponente il famoso Premio Tropea, venuto a mancare nel 2013: Lino Daniele, del quale ricordo pure i romanzi “Il figlio ribelle” e “L’ultimo contadino di Bugurna”.

 

Ma chi era Lino Daniele, appassionato fin da ragazzetto dei “Promessi sposi” che partecipò a fine anni 50 a “Lascia o raddoppia?” e vinse una ‘600, docente di lettere che, fresco di pensione, fu totalmente proiettato verso l’impegno di scrittore e di animatore culturale? Lui si scherniva così: “Sono lo scrittore della borghesia calabrese, degli uomini che sono emigrati al Nord e in America e hanno fatto onore a sé stessi e alla Calabria. preta-e-danieleintellettuale disoccupatoE anche dei calabresi che vengono dalla gavetta e stanno riuscendo a far progredire e sviluppare turisticamente la Calabria. Io sono lo scrittore della borghesia progressista. Sono rimasto in Calabria perché solo restando nella propria terra si vivono profondamente i problemi, e poi si riesce a scrivere. Uno scrittore, come diceva Manzoni, deve essere utile al proprio tempo e alla propria ragione. Se uno scrittore non riesce a incidere positivamente sulla società e sulla propria terra, può fare a meno di scrivere libri”.

 

Recensione de “L’intellettuale disoccupato” – L.  Daniele (2011)

fatta dalla scrittrice prof.ssa M. Concetta Preta

in occasione delle Giornate  Gutenberg 2013 al Liceo Classico “M. Morelli”, Vibo Valentia

 

  “E’ un lungo dialogo con sé stesso, uno “scavo psicologico” all’ interno dell’io alle prese con i problemi di una coscienza inquieta, messa alle strette dalle necessità del vivere. Di azione ce n’è poca e, quando c’è, è sempre sostenuta dalla riflessione solipsistica di un individuo che, fino all’altro giorno, aveva delle certezze, degli ideali ma poi, d’ improvviso, per le impellenze del quotidiano, spinto dai familiari, in primis il padre, deve abbandonarli e diventare un altro. Ecco che il protagonista si sdoppia, si analizza, vede in sé un’altra persona e non si riconosce più.                                         “Chi sono io? Che ci faccio qui? Perché mi comporto così?”

Ma chi è il protagonista?

   Girolamo Vartuli, giovane laureato in Economia e Commercio, tornato nel suo paesello dopo l’esperienza esaltante degli anni universitari in una grande città, sta per toccare la soglia dei ventotto anni.

  Lui vorrebbe prolungare all’ infinito questa sua gioventù leggera, senza problemi … tanto c’è il rifugio della casa, una famiglia accogliente com’è tipico del Sud Italia, poi ci sono gli amici del circolo, le giocate a poker, gli incontri con i compagni comunisti, le mille lire date da “mammà”, un piatto di minestra fumante a cena, la tv che trasmette la tribuna politica, la camicia pulita, stirata e profumata ogni giorno, il rito mattutino della lettura del giornale  … cosa chiedere di più per uno che non ci tiene ai richiami del materialismo? E così le giornate trascorrono uguali tra i soliti “ozi meridionali”… perché preoccuparsi del futuro? Da “bamboccione” qual è non si pone il problema del lavoro. L’ideologia gli basta. Il marxismo lo sfama. Più che un disoccupato, lo considero un “inoccupato”.

  Poi, inaspettato, come è d’obbligo in una vicenda romanzata, arriva l’“imprevisto”, prevedibile perché vi fosse un‘ evoluzione.

   E’ finalmente giunto il momento della resa dei conti, è ora di dire basta con la solita vita da sfaccendato, da intellettuale un po’ nolente e meno volente, che si crogiola nel vizio e nell’attesa.  

    E’ tempo di elezioni, il carrozzone dei candidati e dei “raccattavoti” si mette in marcia e così il padre promette mille voti all’onorevole Totirero e questo garantisce per il figlio laureato a pieni voti un posto da direttore di banca proprio nel paesello.

  Un figlio che fa la scalata sociale … e proprio sotto gli occhi di tutti… per la mentalità ristretta che domina nell’ ambiente, sarebbe veramente un evento!

   Ma non è solo il desiderio di un coronamento di anni spesi tra i libri: ci sono esigenze economiche. La famiglia non ce la fa più a sobbarcarsi quattro figli di cui tre all’università ed uno, il maggiore, ancora a spasso. E non basta neanche l’aiuto del nonno a far fronte alle spese. Stanno per andare sul lastrico.

  E’ tempo che Girolamo trovi un impiego … ma non dev’ essere un lavoro qualsiasi: ci vuole un posto confacente alla sua laurea, perché in questo Sud degli anni 70 si vive del mito della laurea, che non è ancora il “semplice pezzo di carta” di oggi, è uno status-symbol, è il lasciapassare per grandi sogni e aspettative di gloria. Questo, almeno, è quanto pensava lo stesso protagonista all’ inizio, perché col tempo, nel corso dello svolgersi dei fatti, si accorge che la sua laurea gli serve proprio a poco.

  Prima, in quanto laureato e, come tale, da persona che ha studiato, credeva di essere un vero intellettuale, le cui caratteristiche sono: la libertà e l’impegno sociale.

  La libertà, l’abbiamo spiegata: è il godimento di piccoli piaceri, il non dover render conto a nessuno, il sapersi accontentare.

  L’ impegno sono le riunioni al circolo, le arringhe alla folla, il coinvolgimento nella politica e nella cultura.

  Ma pian piano Girolamo capisce di non avere ne’ l’una ne’ l’altro quando, spinto dal padre, si mette a far la propaganda per l’onorevole del quale non aveva mai condiviso le idee.

   Lui, comunista convinto, si trova, suo malgrado, a far da “galoppino” per conto del nemico politico. Lo fa solo per “la sistemazione”. Ecco che in lui avviene una vera metamorfosi: da giovane indipendente, sicuro delle sue idee, combattivo diventa arido, si chiude in sé stesso, agisce solo per un fine pratico, pensa come un “borghese piccolopiccolo”, lui che i borghesi li ha sempre combattuti!

   Dove finisce il passionario del ‘68 e dei primi anni ‘70?

   In fondo quella di Girolamo è la svolta di moltissimi ragazzi che hanno fatto le barricate e le occupazioni, i collettivi e le lotte all’università ma che poi, spinti dal bisogno, hanno messo i sogni nel cassetto ed hanno pensato bene, attraverso l’uso strumentale della politica e lo strumento del “voto coatto”, di diventare qualunquisti e di pensare non più come “gruppo” ma come “individuo”. E’ quanto è avvenuto, a più gradi, in Italia sul finire degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, consegnati alla storia come l’epoca del consumismo sfrenato, dell’edonismo, della caccia al benessere, del degrado morale e civile.

  Ben si coglie questo passaggio ideologico nel romanzo, il cui sfondo storico è quello di un’Italietta del Sud dove la militanza partitica e la passione di tanti giovani di sinistra diventano un pallido ricordo e l’imborghesimento genera il desiderio di “apparire”, non più di “essere”.

  Anche Girolamo indosserà la sua maschera, si esporrà al ludibrio degli ex-compagni, andrà a casa dell’onorevole per mendicare il suo agognato posto di lavoro, quello che non arriverà mai …

  Solo alla fine capirà che la politica è fatta solo di parole, di fatue promesse, di squallore e delusione. Io credo che, in verità, l’avesse capito molto prima, ma che si sia incallito in questa scelta spinto dalle ristrettezze familiari.

   Davvero per concedersi il lusso di essere “intellettuali disoccupati” bisogna già di famiglia esser ricchi! Nelle famiglie come quella dei Vartuli, non certo povera, neanche proletaria, ma non troppo benestante, diciamo una “middle class” di un paese meridionale, fatta dal ceto impiegatizio, dove a lavorare è solo il padre, il mantenimento dei figli è solo fino alla laurea, poi bisogna rimboccarsi le maniche!

  Immagino che, in un ipotetico “continuum”, Girolamo abbia trovato la forza di riscattarsi e di gettare quella maschera, ritrovando la sua libertà. Perché si può vivere in maniera dignitosa anche “mangiando pane e cipolle”, almeno si è liberi e non si è tradita la propria coscienza. E si è uomini veri.

 Ed ora, com’ è nella mia cifra, veniamo a qualche passaggio che mi ha convinta.

 Cominciamo con l’ambiente, descritto con quella dovizia di particolari, quella eterogeneità che arride alla “Satyra” intesa alla maniera latina: un occhio irriverente verso il malcostume, l’osservazione dei difetti sociali, la sapidità di chi ironicamente si mantiene leggero e lontano dall’azione.

  Per effetto di una elegante comicità, l’autore affibbia al politico e al barone un nome altisonante ma che, alla maniera plautina, è giocato sull’ allitterazione e quest’effetto sonoro genera ilarità, ed a mio avviso c’è la degradatio del personaggio, la “deminutio capitis” dei potenti in un gioco sottile che solo lettori esperti colgono. Le voci onomatopeiche e col ripetuto suono dentale (Totirero, Tartatarra) mi hanno fatto subito ridere, sembrano balbettii.

  Bella anche la presentazione della politica e dei suoi giochi di clientele, dei ruffiani, dei galoppini che, alla maniera dei “clientes” dell’antica Roma, lavorano per il padrone e, dunque, smarriscono il senso della libertà. Il politico asseconda tutti, promette, prende appunti dei “desiderata”, fa finta di interessarsi agli altri ma, in realtà, pensa solo a se’ stesso. La cortigianeria solletica il suo ego smisurato, lo fa assurgere ai fasti di un deus ex machina. I lacchè con gli inchini e gli ossequi verbali alimentano il suo delirio d’onnipotenza. Il servilismo, cancro della civiltà e del progresso, è la sua linfa. Ovviamente si tratta di un politico corrotto, non tutti i politici sono così, anche se i più obbediscono al solito chichè. E il popolo italiano, da sempre, non gode di buona memoria quando va a votare, perciò riappaiono spesso i soliti nomi, anche di gente che ha rubato e vengono rieletti. E poi nella vuota retorica dei comizi, le promesse fanno parte del gioco, sono l’alimento – base del politicante.

  Interessante poi cogliere il conflitto generazionale all’interno del microcosmo familiare: è un “dramma piccolo – borghese” quello che leggiamo nel romanzo. Emerge la differenza tra padre e figlio, il solito copione tra vecchio e nuovo che qui ha come punto focale la divergenza politica e il modo di vedere la vita.

  Di solito una certa mentalità, dura a morire, pensa che siano cinici i giovani e che i vecchi siano, sempre e comunque, migliori. A parte che il pensiero-unico è quanto di più mortificante ci sia e il tentativo di omologare tutti e una battaglia persa in partenza, nel romanzo finalmente assistiamo al contrario.

  Girolamo è sognatore, idealista, si accontenta di poco per vivere, mentre il padre gli addita, quasi machiavellicamente, che “il fine giustifica i mezzi” e che, per avere un lavoro, bisogna sapersi vendere al migliore offerente. La libertà? Solo un optional, una semplice parola!

   Per Girolamo è importante la massa, che “fa la storia” secondo l’ideologia marxista. Per il padre è importante l’individuo che pensa ai suoi scopi. Perché il socialismo reale è solo una serie di parole, ma in fondo la spesa bisogna farla ogni giorno! E poi ci sono le tasse universitarie, i libri che costano sempre di più … Come trovare un accordo, una via di mezzo?

Dall’iniziale incomunicabilità tra i due mondi (Girolamo vorrebbe anche fuggire da casa, ma per la sua inanità non ci riesce) si passa poi all’alleanza tra i due che faranno la “campagna elettorale” per l’onorevole che promette il posto.  Ma dov’ è il posto promesso? Finite la campagna elettorale e le elezioni, rimane un mucchio di belle promesse, “verba vana” atte ad alimentare all’infinito le speranze.

  In verità mi è parso inverosimile il mutamento di Girolamo, che ho letto in chiave paradossale, un po’ come il finale, in cui l’effetto a sorpresa del ludibrio e della dissacrazione rimane comunque insoluto, in attesa di un finale che ognuno di noi può immaginare.

 

                                                                      Maria Concetta Pretapreta-e-daniele intellettuale disoccupato