VIOLENZA IN CALABRIA IERI E OGGI: LA TRISTE STORIA DI LIVIANA ROSSI – riletta da M.Concetta Preta

lo-stupro-franca-rame femminicidio2 10687116_377272852425461_5001235454204419438_nAi lettori del mio blog voglio proporre, proseguendo la personale riflessione contro la violenza sulle donne, un fatto di cronaca risalente al 1983 e sul quale ho indagato personalmente: lo stupro e l’assassinio della giovane Liviana Rossi, avvenuta nella nostra terra, la “bella e maledetta” Calabria. Si tratta di una piccola “inchiesta giornalistica” che ho voluto inserire al centro del mio libro “Rosaria detta Priscilla, e le altre – Storie di violenza e femminicidio” ed. Meligrana 2015. Esso è annunciato, secondo un modulo espressivo-formale a me caro, da una mia lirica composta ad hoc.

Al di là dello specchio
Specchio delle mie brame …
corpo acerbo e mille sogni.
Lusinghe, fiabe, bugie.
Scopri così la voglia d’amore,
nell’ombra un tocco diverso:
“il tuo lui” … e il cuor sussulta.
Col tempo, il baratro:
perversione e rose rosse
calci, pugni e false promesse.
Sul tuo corpo il suo … e tanto dolore.
Accettare, sopportare, zittire.
Un rito a cui noi donne sono use,
che ci vuole sempre uguali:
bambole di gomma o involucri di vetro.
Mani che frugano, assenza di dolcezza,
 sguardi perversi, menzogne, violenze.
Non c’è farmaco per attutire le pulsazioni.
Non c’è anestetico per sedare le emozioni.
Non c’è veleno per morire.
Fabbrica di piacere il nostro corpo,
 cumulo di sabbia impastata a lacrime.
Maria Concetta Preta 2015
In ricordo di Liviana e di tutte le vittime di violenza carnale.
La storia di Liviana Rossi
Una tragica notte d’estate
Liviana Rossi viene trovata senza vita sulla spiaggia di Torretta di Crucoli (Catanzaro), il 3 luglio 1983. Aveva 22 anni ed era una studentessa ferrarese del DAMS di Bologna, nata a Borgo Mesola nel Ferrarese nel 1961.
Uccisa una notte d’estate perché si era opposta ad un tentativo di violenza carnale. L’assassino usa una pietra con la quale la giovane viene ferita alla tempia destra, ma la causa della sua morte – lo appurerà l’autopsia – è l’asfissia: l’assassino, dopo averla tramortita, le ha compresso il viso sulla sabbia, fino a soffocarla.
Liviana Rossi, assieme ad un gruppo di sue amiche, era giunta in Calabria da circa 15 giorni. Lavorava nell’albergo ristorante “Costa Elisabeth” di Torretta di Crucoli a circa 800 metri dal luogo dove viene trovata uccisa. La ragazza, finito il turno di lavoro, era andata, assieme a Bruna Fazio, 23 anni, di Codigoro, in discoteca ed insieme erano rientrate poco dopo le 2.30. Mentre Bruna Fazio resta sveglia a guardare la televisione, Liviana dice all’amica che sarebbe andata a dormire, invece stranamente esce e va sulla spiaggia.
Il 25 gennaio 1984, sei mesi dopo il delitto, i carabinieri di Catanzaro arrestano a Cosenza un uomo, Pietro di Leone, 48 anni, accusato di aver ucciso Liviana dopo aver cercato di violentarla. Anche Di Leone lavorava al Costa Elizabeth, come maitre.

Il 16 luglio 1988 Di Leone viene processato, ma non in corte d’Assise. Il Tribunale di Crotone lo condanna ad una pena mite: quattro anni di carcere (due condonati), riconoscendolo responsabile solo di omicidio colposo e tentativo di violenza carnale.   

Le indagini furono faticose, anzi faticosissime. In Calabria, nella comunità del luogo, vi fu palese partecipazione verso lo stupratore-uccisore, vuoi per solidarietà “territoriale”, vuoi per questioni “culturali”, vuoi per una forma di scandalosa “omertà”, tipica del non pronunciarsi, del secolare tacere delle genti del Sud.  Vuoi, infine, per una forma di “simpatia” verso il maschio latino in piena crisi d’identità davanti ad una giovane donna disinibita e libera. Della serie: “la bella nordica, emiliana purosangue, abituata al divertimento, ai balli, la giovane femminista venuta qui a provocare, con la scusa del lavoro stagionale, venuta qui a fare conquiste … se l’è cercata! Ben le sta.”
Come fu presa la notizia della pena inflitta all’uccisore di Liviana? Tiepidamente. Ecco alcuni titoli di giornali dell’epoca, anno 1988 (per lo più di orientamento ideologico di sinistra):
Mite condanna allo stupratore
Liviana Rossi, studentessa era in Calabria per vacanze di lavoro. Fu trovata morta sulla spiaggia.
Battaglia per ottenere il processo
 Dopo l’omicidio indagini faticose, una campagna denigratoria sui giornali contro la vittima.
La violenta, lei muore: 4 anni
Quattro anni di reclusione e 35 milioni di risarcimento per aver tentato di violentare e aver ucciso una ragazza di ventun anni, Liviana Rossi, originaria del ferrarese. Questa la condanna che il tribunale di Crotone ha inflitto a Pietro di Leone, 52 anni, direttore dell’albergo dove la giovane lavorava come cameriera. L’omicidio avvenne il 3 luglio di cinque anni fa.
Ci vollero ben cinque anni e dodici giorni per arrivare al processo per l’omicidio di Liviana.  L’imputato, Pietro di Leone, all’epoca dei fatti quarantasettenne, da tempo in libertà provvisoria, non era in aula ma si fece vedere per i corridoi del palazzo. Al processo, che si svolse in una sola giornata, venne ricostruita la terribile fine della giovane.
La vicenda.
Lo stupro.
Liviana, assieme ad un gruppo di sue amiche di Ferrara e Bari, era venuta in Calabria per svolgervi lavoro stagionale. Attiva studentessa del Dams di Bologna, autrice di un libro di poesie dal titolo: «Fili di rabbia», pubblicato nel 1982, iscritta all’Udi (Unione Donne Italiane) ed impegnatissima – ironia della sorte – sulle tematiche della violenza contro le donne, Liviana aveva deciso di abbinare alla vacanza nel mare pulito della Calabria il lavoro per pagarsi studi e piccole spese.
Per la sua morte venne rinviato a giudizio Pietro di Leone, nato nel 1936, al tempo direttore dall’albergo «Costa Elisabeth» di Torretta di Crucoli dove la ragazza aveva trovato lavoro con le amiche.
Di Leone venne accusato di tentativo di violenza carnale e omicidio colposo. L’iniziale accusa di omicidio volontario fu poi derubricata. Ma la dinamica dell’omicidio e la stessa ricostruzione fatta nella sentenza di rinvio a giudizio sembrarono autorizzare anche altre ipotesi.
Liviana, finito il suo turno di lavoro, si fa bella e decide di trascorrere un’ennesima notte in discoteca con la sua amica Bruna. Sono giovani e piene di vita, non sentono la stanchezza di una giornata di lavoro in albergo. Non le basta ballare, e a notte fonda se ne va in spiaggia. Passa il tempo e non torna, alcuni amici del gruppo si preoccupano e vanno a cercarla.
Liviana viene ritrovata sulla spiaggia dell’albergo distesa con il ventre sulla sabbia e la fronte poggiata sul braccio. Chi l’aveva uccisa l’aveva ricomposta con tanta attenzione che gli amici della ragazza, dopo averla raggiunta attorno alle tre di notte, si stendono accanto a lei pensando che dorma.
Angela Occhi e Gennaro de Bartolo, questi i nomi degli amici, restano lì accanto a lei fino all’alba quando decidono di svegliarla per rientrare. Ma Liviana era morta da tante ore.
La sera precedente, Liviana ha incontrato il suo assassino all’uscita della discoteca dove era stata a ballare. L’avrà avvicinata con un pretesto, un ricatto … chi lo sa? Il Di Leone, secondo le testimonianze univoche delle colleghe di lavoro di Liviana, la circuiva con una corte spietata ed ossessiva. In più occasioni aveva tentato di metterle le mani addosso approfittando del suo ruolo di capo del personale dell’albergo e ricattando sottilmente la ragazza fino a minacciare il licenziamento delle sue amiche. Di Leone non riusciva a darsi pace del fatto che una ragazza libera ed innamorata della vita volesse scegliersi i rapporti senza sottostare ad alcuna imposizione. Perché una così con lui non ci stava?
Non siamo in grado di ricostruire i fatti della tragica notte per filo e per segno, possiamo immaginarceli.
Crediamo che Liviana, avvicinata con un pretesto, non abbia potuto esimersi dall’incontrare il suo carnefice, lasciata l’amica in camera con una scusa.
La galoppata verso la morte è una serie di tetri fotogrammi: ogni stupro è un copione dannatamente risaputo. Risentiamo i suoi no, il suo resistere, i graffi, la forza bruta, la costrizione, le minacce.
L’indagine tra false piste, ritardi e pregiudizi.
La causa della morte – come preciserà l’istruttoria riferendo i risultati dell’autopsia – è dovuta a una grave lesione al capo, ma viene registrata anche «l’esistenza di altre lesioni». Insomma, deve esservi stato uno scontro breve ma drammatico, come dimostrano i graffi su tutto il corpo di Liviana, a partire da quelli tra le gambe che in nessun caso potrebbero essere stati causati da una caduta accidentale.
Liviana, si sostiene in primis, potrebbe essere caduta dalle scale che conducono dall’albergo alla spiaggia battendo la testa per terra. Le scale, sottolinea però il magistrato, sono “appena 7 gradini per un’altezza estremamente modesta”.
Una dinamica ben più inquietante emerge invece dalla perizia di parte sul corpo della giovane che potrebbe essere morta per soffocamento, mentre veniva trascinata con la faccia sulla sabbia dopo essere stata tramortita.
Interrogativi e contraddizioni, secondo le amiche di Liviana, sono state possibili perché attorno all’omicidio è immediatamente scattato il meccanismo tradizionale che trasforma le donne che subiscono violenza in maliziose e provocanti colpevoli.
Le indagini, fin nelle preziosissime prime ore, si sono interamente orientate a scandagliare la vita delle ragazze dell’albergo e di Liviana. Una ricerca ossessiva e malata. L’unica stanza dell’albergo messa sotto sopra dai carabinieri per trovare indizi fu quella in cui dormivano le ragazze, mentre nessuno ha pensato a dare uno sguardo in giro per l’albergo dove, fin da subito, Di Leone iniziò una campagna per convincere tutti di una disgrazia dovuta al fatto che Liviana era ubriaca.
La campagna denigratoria: Liviana uccisa due volte.
La stampa destina una certa attenzione al caso, tingendolo di tinte torbide e pruriginose. Negli anni 80 il tema della violenza sessuale non è ancora sentito dalla maggioranza della popolazione e i gruppi femministi attivi (di cui molti in piena crisi d’identità e privi degli slanci ideologici del decennio precedente) si battono per una presa di coscienza nazionale verso il tema e per una legge specifica che riconosca il reato.
Le donne s’interrogano sulla violenza, spesso e volentieri da sole, non si è spento l’eco della ragazza siciliana Franca Viola che, negli anni ’60, denunciò il suo violentatore-rapitore. Molte le iniziative promosse, ma arduo il cammino. Il caso di Liviana insegna qualcosa.
Il 1983 è un annus horribilis per quanto riguarda la cronaca nera al femminile, e specie il periodo di giugno.
A giugno scompare Emanuela Orlandi e, soprattutto, viene uccisa Francesca Alinovi, ricercatrice del Dams di Bologna e brillante critica d’arte e musa degli artisti post-moderni.
Si crea “il giallo del Dams”, luogo progressista, alternativo e dove la droga scorreva a fiumi, si parla di un killer di intellettuali e studenti, poiché l’anno prima era stato misteriosamente ucciso un brillante allievo di Umberto Eco, Angelo Fabbri. Lo stesso che, sempre nell’83, subito dopo l’Alinovi, strangolerà Lea Polvani, pure lei iscritta al Dams, in una grotta emiliana.
Si generò una moda mediatica: a Firenze era attivo il mostro delle coppiette, nella vicina città emiliana quello del Dams. Per vendere carta stampata e per alzare gli ascolti dei telegiornali e delle inchieste televisive, i cronisti se le inventarono tutte.
Così la povera Liviana, in quanto studentessa del Dams, viene associata ad Angelo, all’Alinovi e a Lea. Non brilla di luce propria, almeno finché il mistero non venne svelato: nessun mostro, semplici coincidenze di luoghi e ambienti, solo la “colpa” di frequentare l’ateneo maledetto. Liviana viene uccisa in Calabria, il legame con gli altri delitti consiste solo in una pura coincidenza, qua di altro “mostro” si tratta, non c’entra niente l’ambiente equivoco dell’università bolognese. Qua si tratta di tentato stupro, altra parola maledetta e che si ha pudore solo a pronunciarla, specie nel Sud Italia.
Su di lei se ne dissero di sciocchezze, e si aggiunse una buona dose di veleno, agitando una vera e propria campagna denigratoria secondo una mentalità ben nota che vuole la donna “tentatrice” e l’uomo “cacciatore”. Tanta la malignità e la misoginia – latente e non –  nella società degli anni ’80, nonostante le affermazioni della donna nel campo del lavoro, della società civile, dei diritti, dell’immagine, del potere politico. Ma si tratta di eccezioni, nella realtà le cose sono ben diverse.
Stampa locate, calabrese ed emiliana, e pregiudizi si sono dati la mano per trasformare l’impegno politico e culturale di Liviana in una anomalia piena di inconfessabili colpe. Liviana è diventata – di volta in volta – omosessuale ed equivoca, drogata e perversa, ubriaca fino al midollo tanto da «dover sbollire la sbornia in riva al mare» ed inquietante studentessa del peccaminoso passato (frequentare il Dams di Bologna è comunque una “colpa”). Ma dalle perquisizioni e dall’istruttoria non è uscito un solo grammo di droga.
Prove tossicologiche ed esami hanno rivelato quel che le amiche di Liviana hanno sempre sostenuto: nessuna storia di alcolismo o di droga, ma solo una terribile violenza a cui la ragazza di Borgo Mesola non ha voluto piegarsi.
Genitori e familiari, subito accorsi, cercano di mettere fine alle voci infamanti e si sforzano di restituire agli occhi della pubblica opinione il vero volto di Liviana: quello nobile, colto, sensibile all’arte, alla politica, alla cultura, all’impegno.
Non basta. La Procura, giudicando inconsistenti gli indizi, addirittura propose l’archiviazione del caso, ma il giudice istruttore – uno di quelli caparbi, che ci credono nel loro lavoro, da Nord a Sud – volle riaprire le indagini ed alla fine mise al gabbio il Di Leone, rinviandolo a giudizio.
L’epilogo: una tragedia finita in farsa.
Passano cinque lunghi anni, immaginiamo di quanta e quale sofferenza per i familiari. Nel 1988 viene finalmente emessa la sentenza finale, si chiude un’odissea. La condanna fu per omicidio colposo, frutto –  come appurò la giustizia –  di un tentativo di stupro conclusosi tragicamente: Liviana, cercando di divincolarsi, cadde fratturandosi il cranio. Non era intenzione dunque del Di Leone ucciderla.
La pubblica accusa avrebbe voluto un capo d’imputazione e una sentenza più gravi dei cinque anni di carcere di cui due condonati. Un’ennesima burla per una vittima innocente. Una risoluzione che lascia – non è la prima, non sarà l’ultima – l‘amaro in bocca.
Si chiude una dolorosa pagina, salviamo almeno le sole certezze che rendono giustizia alla memoria di Liviana: non aver il suo caso alcun legame con i “delitti del Dams” e l’essere stata uccisa una “brava ragazza”, magari non una di quelle “casa e chiesa”, ma una ragazza moderna, emancipata e, soprattutto, coraggiosa. Un riscatto morale, almeno c’è stato.  Solo che l’assassino fu rimesso presto in libertà, mentre a Liviana non fu concessa la libertà di vivere. Liviana è stata rimossa, cancellata come su una lavagna un tratto di gesso contenente un errore. Quale fu il suo sbaglio? Quello di essersi opposta, di aver detto “no” una, dieci, cento volte. Di non cedere mai, di non mollare, di non arrendersi … fino alla morte.