LA SCRITTRICE MARIA CONCETTA PRETA RACCONTA LA FOLLIA: “STORIA DI CATERINA C.”

follia ospedali-psichiatrici-giudiziari-chiusura Rosaria 5 marzo 3Riflessione sulla malattia mentale e la Legge Basaglia

 

La testimonianza shock della poetessa Alda Merini

 

 

“Storia di Caterina C.”

 

Le mie mani scivolano su registri semidivorati dal tempo e scorrono nella mente i fotogrammi di un
recente passato. Mi trovo in una struttura tetra e semi-abbandonata: il manicomio di G. *, un vero lager. Mi immagino volti, rumori, pianti, versi indistinti … disperazione, dolore, morte. Sono qui per una ricerca, che confluirà in una tesi di laurea. Quest’indagine segnerà la mia vita.

Fino al 1978, anno della Legge Basaglia, esistevano luoghi come questo, dove i pazienti vivevano in condizioni indicibili. Qui erano confinati i cosiddetti “malati di mente”, rifiutati dalla società, reietti dimenticati che raramente guarivano. Una volta entrati, raramente uscivano da quella che era una vera e propria detenzione carceraria.
Nel manicomio il “pazzo” veniva oggettivizzato e ridotto a un numero, gli infermieri si trasformavano in guardie carcerarie. Le “cure” erano l’elettroshock, le camicie di contenzione, le bastonature, le vessazioni. Inoltre i malati venivano privati di ogni bene personale.
Dal 1978, entrata in vigore la legge 180 che porta il nome del suo coraggioso estensore, lo psichiatra Franco Basaglia, vengono istituti i centri di igiene mentali e i trattamenti sanitari obbligatori, che segnarono un progresso della civiltà sanitaria e un diverso approccio sociale verso i malati di mente ai quali veniva garantito il diritto ad un’adeguata qualità di vita.
Ospedale psichiatrico di  G.*, reparto femminile dei “Malati cronici”, ore 22,15: “La paziente Caterina C. è stata trovata nel suo letto priva di vita dall’infermiera di turno. Causa del decesso: ictus cerebrale”.

E’ morta in silenzio, Caterina C., come in silenzio era vissuta negli ultimi vent’anni, sepolta viva in un manicomio. Un’ombra tra le ombre, prigioniera della follia. Un esilio perpetuo in un carcere da cui non si esce, anche se innocenti. Il folle come un ergastolano che sconta una pena senza aver commesso alcuna colpa. L’hanno trovata nel letto: composta, mani giunte, una rosa vicina al viso, s’era tolta perfino le scarpe, indossava il suo abito più bello, blu scuro, s’era pettinata.

Caterina sapeva di dover morire. Aveva da tempo i capelli imbiancati e sforbiciati senza forma. Risultava appesantita, gonfiata dagli psicofarmaci. Ormai passava le interminabili giornate davanti alla finestra, con le mani in grembo, rattoppando o cucendo. Parlava poco, era sempre sola. Nessuno sa quanti anni avesse. Gli occhi chiari perduti chissà dove. Tutti i giorni così, per vent’anni. La vita che scappava fuori dalla finestra, oltre il giardino dove buttava le briciole ai passerotti, unica compagnia. Ogni tanto la sentivano intonare una nenia, pensava di non essere ascoltata, emanava parole senza senso. La voce, prima inespressiva, si posava sulle note e dal corpo disfatto uscivano disperazione e spasimo. Erano attimi, barlumi di umanità poi … tutto si ricomponeva e ritornava il grigio ordine delle cose. In una stanzetta di due metri quadri un giorno per lei la vita s’è fermata.
Chi era Caterina C.?
Per me, che ho redatto la tesi di laurea sulla situazione femminile nel manicomio di G.* prima del ‘78, solo un nome sui registri. Una merce che entra, staziona ed esce. Un’annotazione come tante. In una casella sulla carta, è racchiuso un essere umano.
Mi ha colpito l’assenza del cognome, l’identità negata. E poi le non-risposte delle infermiere alle mie domande. Caterina era un fantasma, una donna che doveva sbrigarsi a morire, a lasciare libero un posto in quella struttura dov’era solo una scomoda presenza, un sacco pieno d’aria.
Sapere chi fosse mi ha assillato tanto. Chiedevo e nessuno rispondeva. Non m’interessava la “paziente Caterina C.”, io volevo sapere della donna, del suo vissuto. Volevo ricostruire una storia, capire la genesi della sua follia. Perché non era nata demente Caterina, ma era diventata così.
Fortuna volle che un giorno, per puro caso, un giardiniere mi svelò quanto sapeva di lei. Caterina parlava solo con lui, nei rari pomeriggi in cui usciva. Si sedeva sulla panchina del giardinetto e gli schiudeva l’anima, perché lei ricordava tutta la sua vita prima dell’entrata nel manicomio. Il resoconto è inanellato di dettagli, ho usato il taccuino per annotarlo e c’ho messo dentro pietà e commiserazione.

Caterina era figlia di uno dei signori del paese, Don Fausto C.*. Scapolo irriducibile, viveva nel palazzo al centro dell’unica piazza, godeva dei suoi beni, giocava a carte nel circolo cittadino, andava a caccia di cinghiali, cavalcava tra le selve. I contadini, i braccianti, i mezzadri, le donne di fatica e le serve circolavano attorno a lui pronti ad obbedirgli, già grati d’avere solo la fortuna di lavorare e di riceverne protezione. Al Sud il feudalesimo era continuato ben oltre le date fissate sui libri di storia. Carmela, una contadinella che serviva nel palazzo, portata com’era a chinare il capo, non disobbedì quando Don Fausto la volle nel suo letto. Era alta e dritta, forte e altera, riservata faceva i servizi in casa, scivolando leggera da una stanza all’altra e pure nel letto del padrone, l’unico suo uomo. Il primo figlio ch’ebbe da lei, Don Fausto non lo riconobbe e lo affidò ad un brefotrofio di Napoli. La madre pianse tutte le lacrime che aveva, ma ubbidì al volere del suo padrone. La disperazione silenziosa ebbe la meglio alla nascita del secondo figlio: una femminuccia, che Carmela chiamò Maddalena. Fu accolta in casa dal padre senza gioia, dietro le insistenze della madre. Il rapporto tra i due comunque andava oltre il concubinaggio: Carmela non era un’ancella, ma aveva le chiavi della casa e dei magazzini, era rispettata dai parenti di lui, era “considerata” dalle altre serve e dai massari perché non si sentì mai la padrona, non fu mai esigente e superba.

La piccola Caterina cresceva serena nella grande casa, con una madre pronta all’abbraccio, mentre il padre era una figura di sfondo, mai una parola o un’attenzione. Lui rimase sempre Don Fausto, non la riconobbe mai, non le diede il cognome. Quando morì, aveva quindici anni. I beni andarono ai nipoti: tutte le terre, pure il palazzo. Carmela e la figlia dovettero sloggiare e andarsene in una casa spoglia e povera in campagna, ma almeno era assicurato loro il sostentamento.
Caterina seguì silenziosa la madre, continuò a vivere la sua vita da adolescente abitando tra i contadini. Le sue amiche restarono quelle di prima: le cugine, le figlie del medico, del notaio, del farmacista, le ragazze di buona famiglia, però … pian piano le cose cominciarono a cambiare. Crescendo, la ragazza si sentiva fuori posto, e il disagio di vivere divenne manifesto. Viveva su due piani paralleli che si andavano divaricando: da un lato era la figlia del padrone, dall’altra della contadina.
Chi sono io? Che ci faccio qua? Dov’è il mio posto?
Cresceva bella, rubiconda, chiara d’occhi, capelli e carne. Diversa in tutto dalle altre coetanee. Aveva un bel linguaggio, una viva sensibilità ma, di tanto in tanto, s’incupiva e pensava alla sua situazione atipica. Sognava di un mondo lontano, diverso, in cui perdersi, sconosciuto agli altri. Restava muta per ore, non mangiava, non dormiva, il tempo si fermava. Era una sognatrice, ma chi poteva capirlo a quei tempi e in quei posti dimenticati da Dio? Si cominciò a pensare che fosse pazza.

Caterina s’innamorò e fu ricambiata. Corteggiamenti gentili, niente di audace. Ma nessuno era adatto a lei: gli umili lavoratori, artigiani per lo più, non potevano essere alla sua altezza, tutti lo sapevano che era la figlia del padrone. I figli dei signori, poi, non potevano avvicinarsi se non con intenzioni poco serie, perché rimaneva una “bastarda”.   L’unica volta che avrebbe potuto vivere una vera storia fu con un giovane sarto, bello e chiaro pure lui, nobile nel portamento e nei gesti, dalla bocca morbida, coi baffi sottili.

(E’ incredibile quanti particolari avesse raccontato al giardiniere, quante cose ricordasse della sua vita precedente. Caterina aveva una memoria di ferro, invece con i medici non apriva bocca).  

L’innamorato voleva sposarla e portarsela in America, fu la madre ad opporsi, temeva di perderla per sempre. L’idillio s’infranse e da allora Caterina iniziò a vagheggiare rapporti amorosi con uomini appena intravisti e sottratti alla realtà.

Si inventò un’altra vita, un’altra Caterina. E trascorse il suo tempo tra una finta allegria, iniziò ad accorciare le gonne, a portare tacchi vertiginosi, ad approcciarsi in qualche avventura scabrosa. Non era vera gioia, questa fame d’amore. Si era sdoppiata, non sapeva più riconoscersi allo specchio, non capiva perché agiva in quel modo. Iniziarono le crisi di pianto, i litigi con la madre, gli attacchi isterici progressivi, e l’abbandonarsi nuovamente al silenzio. A un certo punto, non parla più. Diventa un pallido manichino. Le viene diagnosticata una malattia dell’anima, la sua mente è in black-out e il raziocinio è latente, non può risollevarla dal baratro in cui precipita. Un muro d’impenetrabilità tra lei e gli altri. Crea disagio in chi le vive accanto, la madre non sa quali siano i suoi bisogni e prende, per necessità, su invito del medico condotto, la decisione di ricoverarla in una “casa di matti”. Sperava di riaverla poi, guarita.  Ma da quel manicomio, Caterina non è più uscita viva.
Questa storia mi è parsa inaccettabile, insensata, funesta e connotata da una profonda ingiustizia. Vittima di convenzioni sociali e della sopraffazione, Caterina è stata il risultato di una serie di errori che si sono sedimentati sulla sua mente finché una voragine non l’ha inghiottita.
Sui muri della sua camera ho trovato alcuni graffiti che lei ha fatto, forse con la forcina che metteva nei capelli, quando ancora li portava lunghi. Cosa ci sia scritto, non l’ho capito bene. Mi pare il nome di un uomo e poi il suo, vicini. C’erano anche dei numeri, forse le date di giornate particolari o forse l’età di qualcuno a lei caro.

La sua vicenda ci porta a riflettere, anche ora che tanti tabù sono stati superati. Ma una cosa rimane. L’impossibilità di accettare il dolore come parte del fluire dell’esistenza, il non riuscire a trovargli un “senso”. Gli antichi Greci, che amavano i drammi a tinte fosche, avevano elaborato una “filosofia del dolore”: a nulla servono le parole, esso è inspiegabile, meglio racchiudersi in un silenzio profondissimo, preludio di morte. Ecco, io credo che Maddalena C. abbia pensato di fare così, alla stregua di un’eroina tragica. Per non dimenticarla, perché qualcuno la conosca e talvolta la pensi, ho voluto scrivere di lei. Così, forse, non sarà morta invano…

 “Caterina C., come tutti i morti della terra, come tutti i morti che si scordano, in un mucchio di carni spente. Per non dimenticare, per costruire libertà e felicità, per sapere accettare chi è diverso.”
In appendice, il racconto integrale della poetessa Alda Merini sui suoi duri anni in manicomio. Ho pensato di proporvelo perché induce a un’ulteriore riflessione. Si tratta di una storia realmente accaduta, assurda ma vera.

L’esperienza del manicomio attraverso le parole di Alda Merini (1931- 2009), nota come “la poetessa dei Navigli”

«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose.
Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.
Fu lì che credetti di impazzire
Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.
Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire.
Mi ribellai. E fu molto peggio
La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti.
Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in stato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.
Quella scarica senza anestesia
Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a riconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla.
E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione. Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori. Molta gente addirittura orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni.
Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là.
In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento.
Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra.
Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo».
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