Una donna negata, alias la brigantessa calabrese Angela, detta La Malandrina

ANGELA, LA MALANDRINA PREMIATA AL PREMIO LETTERARIO MARZO DONNA A VENEZIA

di Roberta DA ROSA

Con la seguente motivazione la Giuria letteraria del Premio Letterario “Il corpo delle donne”, svoltosi il 18 Marzo al teatro Momo di Venezia Mestre, ha assegnato il secondo posto a “Una donna negata” tratto da Angela, la Malandrina –  Storia di
brigantaggio e libertà della scrittrice vibonese Maria Concetta Preta:

“La sfida di ricostruire un ambiente storico, di delineare dei personaggi femminili solidi, di riuscire a dare loro credibilità e profondità psicologica in soli 3600 caratteri è stata sicuramente vinta da Maria Concetta Preta. La femminilità, negata alla protagonista dalla scelta di essere una fuorilegge, di essere una brigantessa, si riappropria prepotentemente dell’animo della donna e si riafferma nella sua immaginazione. Altre donne, malafemmine, prostitute, sono lo specchio inverso nel quale la brigantessa può intravedere il desiderio ed una vita diversa. Il racconto è scritto in maniera impeccabile e la dinamica della narrazione, anche nella brevità, Brigantesse-1c-OK-Giornata-della-donnaanton-romako-römische-tarantella-tänzerin-mit-tamburin-und-einem-mandolinenspieler[1]banditi-e-briganti-di-enzo-ciconte-T-9bJsqcriesce ad essere ampia e profonda alla stesso tempo. Una lieve sfumatura di epicità riesce a donare al racconto un’attitudine classica, non inficiandone nel contempo la modernità. Per questo la giuria premia il racconto “Una donna negata” con il secondo premio.”copertina 2

In esclusiva per i lettori del suo blog la scrittrice ha concesso la pubblicazione del racconto vincitore e ha rilasciato un’intervista relativa all’opera da cui il brano è tratto.

“Una donna negata” – di Maria Concetta Preta
“Sono una brigantessa, ho indossato la divisa a sedici anni, per fuggire dalla miseria. Mi sono arruolata in una banda e lotto una guerra senza frontiere, giorno per giorno, pensando che sarà l’ultimo. Quando posso, mi riapproprio del mio corpo dimenticato di femmina, con l’odore selvatico che trasuda, le unghie annerite, i capelli aggrovigliati, la pelle cotta dal sole o raggelata dalla tramontana. Corpo pietrificato dalla disciplina… ma che sprigiona i suoi effluvi e mi riporta al richiamo della carne. In testa, nessun pentimento di ciò che non sono: una donna. I momenti in cui ritrovo la mia essenza sono quelli dell’abbandono tra le braccia di un compagno, ma il calore di un corpo fiammeggiante sul mio non riesce a scaldarmi l’anima. No, l’amore rubato alla morte non basta a scaldarmi l’anima! Così, mascherata da contadina, scendo in paese con la scusa delle provviste per ritrovare nelle persone i miei simili. L’osteria è luogo d’incontro di gente di malaffare: la malavita prolifera come reazione del popolo avvilito da un regime imposto con la forza. Al piano superiore, la taverna diventa un lupanare: due camere sudicie, ognuna per le prostitute del posto che, oltre al mestiere più antico del mondo, leggono la mano e preparano le fatture contro il malocchio. Le malafemmine sono forestiere, venute da Messina per fare la vita. Donne libere, siglate con un infamante marchio, come le assassine. Dunque, come me. Le osservo nella loro ostentata nudità: seni prorompenti dai corsetti slacciati, labbra pittate di vermiglio, fiori tra i capelli arricciati dai ferri caldi, odore di carne e desiderio. Paragono la loro sorte alla mia. La più grande è Rosalia che, dopo l’amore consumato di fretta, canta a squarciagola, sciacqua il corpo spogliato alla fontanella per togliersi il puzzo dei boscaioli. Quando c’è il sole, si stende su una muraglia arroventata. E’ detta la Salamandra, perché sta immobile, con gli occhi di ghiaccio. Dopo un’ora così, è pronta a ricominciare con uno dei tanti che ha provocato e che la paga quanto vuole lei. L’altra è Catia, la Tarantola, perché dopo l’amore si mette a ballare, al suono di una zampogna, col tamburello in mano, scalza e scarmigliata, saltando come un’ossessa sui tavoli, con il petto di fuori. Mi unisco con la fantasia alla sua danza, immaginandomi bella e sensuale, anche se non tengo più il corsetto. Voglio essere desiderata come lei: scura come un’araba, intona una dolce cantilena d’amore. Invidio Catia e Rosalia, la loro corporeità esibita senza vergogna. Smanio quando si prendono cura del corpo bello e sodo, lo strumento di chi deve fare la vita. Sono donne libere, come me. Ma la bellezza che ho avuto in dono… dov’è? Sono un’amazzone selvatica, coi calzoni stretti sui fianchi e i seni fasciati per non essere impicciata. Sotto la camicia e il giubbetto non si coglie niente di me. Come ho soppresso la femminilità! Quando mi ribello, sprigiono la mia natura nei notturni amplessi, momenti fugaci strappati alla morte. I capelli d’ebano sono chiusi in una treccia sotto il berretto a cono, ornato di nastri sfilacciati. Ho indossato una maschera per ingannare la sorte: un gioco rassicurante, almeno per quanto durerà. E poi do la morte, io che sono nata per dare la vita! L’unica cosa che mi ricorda la mia natura, è il sangue che ogni mese sgorga copioso. Mi urlo che posso essere madre… stringo allora in mano la Madonna, la ringrazio di non esser gravida. Passa così la paura di dover intervenire con dolorosi malefici sul mio corpo e ricomincia un nuovo mese della mia vita sventurata.
  Intervista dell’autrice.
D.: “Quando ha deciso di scrivere “Angela, la Malandrina”? “
R.: “In verità il personaggio era chiuso nello scrigno del mio cuore da molti anni e urgeva di svelarsi, ma si sa che non è facile tradurre in parole un palpito di vita inconscia che chiede di non esser dimenticata e fa di tutto per non morire dentro di noi. Scrivere è per me dare vita a queste emozioni profonde che bussano alla porta del mio animo e Angela è stata – come altri personaggi femminili a cui ho dato voce – una delle storie più forti e crude che io abbia mai elaborato. Angela si è impossessata del tutto di me al punto da creare un “meraviglioso stordimento e un viaggio all’indietro alla ricerca del personaggio”, attraverso uno scavo interiore sofferto e autentico.”
D.: “Chi è Angela?”
R.: E’ una contadina calabrese della seconda metà dell’800 che cerca la liberazione da un ambiente familiare triste e retrivo in cui vige la legge del padre-padrone. Dall’orrida bicocca in cui vive, la sedicenne, che nel presentarsi volutamente tace il suo cognome, decide di fuggire per intraprendere una strada verso l’ignoto e che la porterà lontano, oltre i limiti del suo immaginario, verso quella che lei crede essere la strada per la sua libertà: il brigantaggio.  Ne consegue un’avventura umana prim’ancora che epica, in cui è preponderante il tema del riscatto degli umili in generale e in particolare della donna, da sempre eterna esclusa dalla storia, oltreché incompresa e condannata prim’ancora di agire, com’era tipico in quei tempi, e non solo al Sud.
D.: “Qual è il valore complessivo dell’opera e com’è strutturata?”
R.: “I toni che ho usato sono ora flebili e teneri, specie quando si parla di paesaggio, sentimento, amore, solidarietà… ora tesi e marcati quando irrompe la storia al punto che l’opera si risolve in un vero e proprio “atto d’accusa” contro la politica del tempo, condotto lucidamente su due fronti:
– quello dell’azione materiale, attraverso la scelta di Angela, assolutamente priva di coercizioni, di imbracciare un fucile e seminare terrore per i boschi della Sila e del Pollino, cioè di darsi alla macchia per reagire a un sistema di potere calato dall’alto, per lei come per tantissimi altri che parteciparono al movimento del brigantaggio politico nell’estremo lembo della penisola, dopo lo Sbarco dei Mille e l’Unificazione d’Italia;
– quello del sentimento e della riflessione profonda che porta Angela a interrogarsi continuamente sul suo “hic et nunc”, sul suo stato in essere, sulla sua situazione, chiedendosi: Chi sono io? Cosa faccio? Dove mi trovo? Dove andrò?  …riuscendo a mettere in discussione persino la sua scelta autonoma.
 Angela è un personaggio complesso, in continuo divenire, in fieri: prototipo della ribelle, che rifiuta la staticità di una condizione imposta e decidere di imprimere una svolta consapevole della quale dovrà accettare i rischi, le paure, i dubbi.
L’opera, volutamente densa e concentrata, si risolve in una sorta di “J’accuse” in cui si intersecano continuamente due piani: quello esterno ad Angela e quello interno, relativo al suo animo fiero e irriducibile.
  Il primo monito è la critica alla storia e ai suoi personaggi consacrati, figure intoccabili che nei tomi appaiono come eroi della nazione italiana, i facitori del nuovo ordine raggiunto dopo le sanguinose lotte risorgimentali.
  Il secondo piano è quello dell’auto-critica che sposta l’attenzione alla vicenda umana e intima di una donna atipica, una battagliera, una pasionaria che pretende di avere il suo ruolo nella storia e che farà di tutto per diventare tristemente famosa, andando contro la sua vera natura (così si legge nell’incipit). E’ questa duplicità fusa in un’essenza a rendere avvincente il personaggio.
D.: “A chi è dedicato il suo libro, presentato per la prima volta al Tropea Festival Leggere e Scrivere a Vibo Valentia nell’ottobre scorso?”
R.: “Ho dedicato l’opera, ancora una volta, ai giovani perché apprendano quanto non è riportato sui libri scolastici e giudichino senza remore e veti, attraverso una riflessione critica che pone sul banco degli imputati l’astratta formula dell’ Historia magistra vitae est e degli eroi ufficiali. La mia critica più feroce alla formula, citata a volte distrattamente, l’ho esplicitata così: “La storia è maestra di errori e scelleratezze, portatrice di nefandezze, dispensatrice di pregiudizi” oppure: “Le reticenze le appartengono e pure le falsità”.
  Sono affermazioni lapidarie, quasi oracolari che sfatano un dogma e che costituiscono l’asserto da cui sono partita, delineando un ritratto femminile trasgressivo e controcorrente, nella maniera in cui a me piace, come nella galleria di donne di “Rosaria, detta Priscilla, e le altre – Storie di violenza e femminicidio”.
  Ho svolto il racconto in prima persona, è un modo per avvalorare l’identità del personaggio e la sua consapevolezza dell’agire, una piena assunzione delle proprie responsabilità, parafrasando lo stile della tragedia classica e i famosi monologhi delle eroine, alla stregua di Antigone, Fedra, Medea … sospese tra il bene e il male.
D.: “Come vuole salutare i lettori de Il fatto di Pizzo che settimanalmente seguono la sua rubrica “Detto e Scritto, nella quale si occupa del mondo femminile e di letteratura?”
R.: Lo faccio nella maniera con cui son solita fare: una chiusa lirica, tratta proprio da “Angela, la Malandrina”. Quanto io penso del brigantaggio l’ho messo in versi. Buona lettura.
Il sangue è passato
Il sangue è passato ancora
su una terra bella e amara.
La morte s’è fatta destino,
lo sfregio e l’abominio,
son diventati storia
da imparare a memoria.
La lama ha trapassato il padre
sotto le lacrime dei figli,
dei parenti, delle mogli.
Nasce l’Italia con rabbia e rancore,
con cittadini privati dell’onore.
Verranno poi terre lontane e bastimenti
per scordare insulti e tradimenti,
umiliazioni, lacrime e tormenti,
ferite aperte sotto l’acqua e il sole.
Un grido senza voce attraversa le città,
un pensiero senza nome vola nella notte …
Gente senza pace troverà in queste parole
tutta la verità che non vuol dire
e il canto per la dignità e il coraggio

di chi lottò fino alla morte:
uomini e donne, e furon tanti!
Essi hanno un nome, quello di briganti.
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