“Quando l’amore uccide” di Maria Concetta Preta – Ricordo di Francesca Alinovi (1948-1983)

“Quando l’amore uccide” di Maria Concetta Preta
 Ricordo di Francesca Alinovi (1948-1983) 
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Monologo di Francesca    

 

 Fummo la miscela esplosiva di due anime, sodalizio fuori dai canoni: il pittore e il Pigmalione. Complice la beffarda identità anagrafica, ci riconoscemmo al primo incontro. “Io sono te. Tu sei me. Francesco versione maschile di Francesca”. Una relazione incontrollabile, che ci divorò.
Tu sei sopravvissuto, io no. Eppure io non volevo morire, avevo fame di vita! Il nostro amore fu una dissoluzione, tra mostre, vernissages e cocaina. T’imponesti come se io non avessi mai conosciuto l’amore.

  Mi circuivi con attenzioni morbose, in un’atmosfera tesa al limite dello spasimo. Era una violenza soffice e patinata, che accarezza ma non uccide. Ero per te immagine irraggiungibile, proiezione della fantasia malata. La nostra era un’esistenza truccata. Finta come lo ero io quando mi camuffavo da icona new-wave e mi smarrivo nei meandri di una non-vita, identificata con l’arte.
  Non era verità, ma finzione: una fotografia, un quadro. Per te ero immagine, non essenza. Stilizzavi il mio essere e mi prestavo a questa ridicola ed effimera spettacolarizzazione. Per te ero un totem o una statua da venerare, non donna da amare. Tu non amavi me, ma la mia effigie. Io invece ti volevo e soffrivo quando sapevo delle altre, le tue coetanee, mentre io ero una dea, inviolabile e sacra. Ti cibavi di me e attraversavi la mia esistenza, trasformandola a tuo piacere. Forte è l’uomo, debole la donna. Lo so che ho affermato più volte: “Io sono come i miei artisti”, ma una cosa sono le parole, altra è l’anima.
  Tu hai creduto a quanto ho detto e scritto, non a ciò che ero.  Ti sei invaghito della Musa, m’hai fatto salire su un piedistallo.
  Quando volevo scendere, me l’hai impedito. Quando volevo tornare ad essere vera, e lasciarti per sempre, m’hai arrestato.
  Com’ero io prima di te? Una Francesca immensa e maestosa, ma sempre seguita da qualche puntino sospensivo, in continua ricerca, instabile, aperta come in un work in progress, protesa come un ponte verso un futuro da studiare e da scoprire.
 Mi sentivo un’amazzone libera, a cavallo delle mie parole, con l’inchiostro intrepido di uscire per fissare idee e concetti seduta a una macchina per scrivere. Cuore infinito, voglia di sapere viscerale.
  Vivevo l’arte sul campo come una battaglia di pensieri che erano i petali di un fiore: Francesca.L’intelligenza m’avrebbe condotto lontano, la sensibilità m’ha tradito. La mia contraddizione? Sicura in pubblico, fragilissima nel mio intimo e, in amore, un disastro. Quando ti conobbi, ero l’insegnante e tu l’allievo. Pendevi dalle mie labbra, io dai tuoi occhi. Innamorata come alla prima cotta del sosia di me stessa: Francesco. Eri il mio io, riassumevi ciò che ero stata e che ero allora. In quel periodo vivevo la cultura sulla pelle, ero ciò che scrivevo, sentivo per come teorizzavo. Non furono le differenze a frenarci, puntammo su somiglianze e coincidenze: nome e filosofia di vita.   
  M’innamorai pazzamente di te, mia clonazione. M’accorsi che non tutto andava liscio. Entravi e uscivi dalla mia vita, senza rispetto. Se decidevo di allentare il cordone, t’imponevi in tutti i modi e la spuntavi, perché sapevi come prendermi. Riuscivi a dominarmi, malgrado gli anni che ci dividevano. Sapevo che la cosa era destinata a finire, non lo dovevo sentire dagli amici, lo capivo da me. Se non ti vedevo, mi mancavi come l’aria. Che ossessione!
  Intanto mi dannavo, perché tu non mi desideravi. Io ero persa di te, smaniavo per il tuo corpo e tu rimanevi lì, casto verso me, perché io non esistevo come carne, sostanza, donna. Continuavo ad amarti e tu non m’amavi del mio stesso amore. Mi consumavo lentamente, come la cera di una candela. Tu continuavi a non lasciarti andare e fuggivi. Io rimanevo sola con le mie lacrime.
  Una consunzione, una lenta eutanasia. Finalmente, la rivelazione! Scopro che ti concedi a chiunque, che sei un bluff … e ti degrado.
  Che fossi un eroinomane, l’avevo capito subito e non erano bastate le mie parole a dissuaderti. Incassai pure qualche ceffone e molte minacce. Sopportai per amore, solo per amore. Il mio, non il tuo. Alla fine, mi ravvidi. Eri un deficiente narcisista, uno squallido annichilito. T’avevo idealizzato per due anni, cieca di un pazzo amore che m’impediva di vedere e di pensare. Dall’assolutizzazione, al nulla: crollo di un mito. E’ una catarsi, una resurrezione.
  Francesca ritorna a vivere. Finalmente mi amo e non posso amare te. Chiudo questa storia. Magari!
  Tu non vuoi liberarti di me e m’incateni al tuo amore malato, ai tuoi inconsistenti sfoghi di gelosia, mi marchi col tuo possesso. Sofferente, irrequieto, instabile. Continui confronti verbali, dai quali esco con le ossa rotte. Ormai non mi bastano la cocaina, l’illusione, l’estasi. Io finalmente voglio la felicità. E per averla devo lasciarti. Tronco quest’amore malato. Me lo impedirai in un caldo pomeriggio domenicale. Punirai la ribellione con 47 pugnalate inferte come un gioco, anormale come sei sempre stato. Forse volevi solo farmi male, impedirmi di cambiarti, di esigere rispetto e amore. La tua punizione perversa diventa morte. Mentre mi stringi a te, dicendo che sarò sempre tua e che non mi lascerai mai, muoio. Neanche te ne accorgi.
  In quell’attimo, capisco d’essere tornata vera: finalmente sono Francesca! Addio.   

             

RICORDATI DI ME: FRANCESCA ALINOVI (1948-1983)
 Io non volevo morire.
Se tu mi leggi, ora, e io sono morta, 
ricorda che io non volevo morire, 
ricorda che io avrei voluto essere immortale 
e non lasciare spoglie vicarie mortali sulla terra. 
Ricorda che, 
anche faticosamente, 
avrei retto il peso dei miei anni
e la fatica di vivere stretta in un corpo putrido e malato. 
Ricorda poi che, 
per il fatto che mi leggi, 
io ti amo, come, in vita, 
ho amato tutti quelli che mi hanno amato
e ho amato essere amata 
senza mai essere capace di manifestare il mio amore. 
Faccio il mio testamento di amore e di morte 
perché ho sempre sentito l’amore come morte. 
Non voglio morire… e non posso amare. 
La mia riflessione
Quando Francesca Alinovi viene brutalmente uccisa con 47 coltellate nel suo appartamento in un afoso giugno dell’83, la parola “femminicidio” non è stata ancora coniata.
  Non esistono i cellulari, i pc sono roba di pochi, non c’è Internet, non si chatta e i social network sono lontani anni-luce. Si passano ore al telefono, in casa o alla cabina telefonica della SIP o, meglio ancora, ci si incontra e si fa gruppo nelle piazze, vicino ai muretti o alle vasche o nei parchi o nei caffè. Gli adolescenti impazziscono per i primi Mc Donald’s e si afferma la moda dei paninari.
  Le donne hanno preso pienamente coscienza del loro corpo e dei loro diritti. Si afferma definitivamente il modello dell’american way of live, e nuove mode avanzano. Una, tra le tante è quella del movimento dark, che impazza in città del Centro – Nord, come Firenze e Bologna.
  Mentre i governi italiani sono sempre ballerini (e fin qui nessuna novità), non si parla d’altro che del famoso “mostro di Firenze” sul quale si indaga senza successo e che continua a mietere vittime nella campagna toscana.
  Allora come oggi, vanno forte i casi di cronaca nera che inchiodano milioni di telespettatori davanti al tubo catodico. Il terrorismo non è stato – a dispetto di quanto si sia detto – ancora debellato, ma l’attenzione dei mass media si concentra su delitti a sfondo privato o che abbiano a che fare con killer seriali, escludendo le grandi stragi (tra cui quella della stazione di Bologna, di Ustica, quella del treno Italicus e quella di Palermo in cui perse la vita il generale Della Chiesa), le vittime innocenti (come Alfredino Rampi) e le scomparse misteriose (su tutte, quella di Emanuela Orlandi).
  In un caldo pomeriggio di giugno dell’83, in via del Riccio a Bologna, viene ritrovato il cadavere di una donna bella quanto intrigante. Non una donna qualsiasi, ma un personaggio noto negli ambienti underground bolognesi, e non solo.
   Brillante ricercatrice universitaria del Dams di Bologna e talent-scout di artisti d’avanguardia. Sorta di Musa e lei stessa “arte fatta persona”. Docente alternativa nel modo di insegnare e di presentarsi, neo dark-lady del contemporaneo. Seguitissimi i suoi seminari, trasformati in un’esperienza sperimentale d’alto livello.
  Lei è Francesca Alinovi, 35 anni al momento della sua morte. Una morte violenta, inflitta da 47 coltellate, in una specie di gioco perverso e diabolico, una specie di punizione alla sua intelligenza e libertà con la quale sovrastava chiunque. Profetessa di un’epoca, quella degli anni 80, il “decennio breve” di un secolo frammentato e in movimento. La sua morte è l’arresto di una modernità al femminile, di una piena emancipazione.
  Bella e sensibile, Francesca, creatura protesa tra il presente e il futuro, anticipatrice di tendenze. Una vera intellettuale, la cui sicurezza sgomentava, il cui talento sbigottiva. Temutissimi poi i suoi giudizi critici apparsi sulle riviste di arte più in voga nell’Italia tra la seconda metà degli anni ’70 e i primi anni ’80, quando andava di moda la corrente del Post-moderno di cui l’Alinovi fu geniale interprete.
  Allestitrice di mostre, come quella dei Nuovi–nuovi, termine da lei coniato. Scopritrice della street-art newyorkese di Basquiat e dei graffiti di Keith Haring che importa in Italia, sostenendo “l’arte come piace a me” o “l’arte mia”. Quindi fondatrice di una sua corrente artistico-pittorica, l’Enfatismo, in cui l’arte si mescola con la vita e la vita stessa diventa un’opera d’arte alla maniera del decadentismo.
  E certamente un po’ bohemien fu lei e quanti le stavano attorno, e furono molti. Uno, su tutti: un giovane pittore da lei scoperto e “creato”, che porta il suo nome e che lei ritiene il suo alter-ego al maschile, con cui vive una sorta di delirio onirico-amoroso all’insegna dell’identificazione e della perversione.
  Francesca e Francesco. O forse, Francesca è Francesco.
  Un iter amoroso in cui Amore e Morte e realtà e sogno tendono a confondersi in una fatale contaminazione dove l’elemento più debole resta, sempre e comunque, la donna. E sarà lei a soccombere.
MCP
   Tratto da “Rosaria detta Priscilla, e le altre – Storie di violenza e femminicidio” di Maria Concetta Preta, ed. 2015, Melgrana ed.