Donne e Islam tra ieri e oggi: RISCOPRENDO ASSIA DJEBAR (1936 – 2015) di M.Concetta Preta

Donne IslamRISCOPRENDO ASSIA DJEBAR (1936 – 2015)

Corpo di donna
Miliardi di cellule, impasto di lacrime e fango.
Membrane di filamenti impazziti: corpo di donna.

Da Afrodite ad Elena, da Europa a Medea,

Passando per Lucrezia, Rea Silvia e Galatea…
tra il sacro ed il profano, tra storia e fantasia
siam diventate a turno: Eva oppur Ginevra,
turchine fate o nere streghe, Giulietta o Beatrice.
Da sante inviolate a profetesse del nulla,
le schiave d’una tela o d’una catena di montaggio:
neo-Cassandre e Penelopi, califfe e pasionarie
… com’anche brigantesse, partigiane e brigatiste.
Tra libera scelta e libero arbitrio: “Dove il bene? …e il male?”
Donne oggetto e soggetto d’arte: crocifisse su Playboy,
felliniane presenze in dolci vite, cicale e lucciole,
ninfe patrizie e plebee, belle di giorno e di notte,
… ma “caramelle da uno sconosciuto”, mai!
Col corpo a pezzi, aperto e ricucito… di tutti e di nessuno.
Corpo di un folle che c’immortalò o d’un altro che ci brutalizzò.
Pelle tesa come un tamburo o gonfia come un pallone.
Corpo come groviglio, sacco, tela. E all’interno: il cuore … e l’anima.
Maria Concetta Preta copyright 2015
Spinta dal desiderio di riscatto e di denuncia che accompagna ogni mio scritto, e sempre a favore delle vere Donne, quelle che ci credono fino in fondo alla loro “missione”, ho composto questa lirica, perché per me la letteratura è forma di comunicazione e partecipazione al reale e deve, in primis, far riflettere. La dedico a tutti, ma soprattutto alle giovani donne perché prendano coscienza e non dimentichino il cammino verso la libertà e la vera emancipazione.
Riscoprendo Assia Djebar
  Lo scorso mese ho voluto ricordare Fatema Mernissi, scrittrice marocchina venuta a mancare a novembre del 2015. Ma nello stesso anno, a febbraio, è pure scomparsa un’analoga intellettuale, pure lei africana che, come la Mernissi, dibatté su Islam e Occidente e, soprattutto, sull’universo femminile: Assia Djebar.
  Algerina, vero nome Fatma Zohra, si annovera tra le più importanti scrittrici francofone del Maghreb, Assia è morta a 78 anni il 7 febbraio di un anno fa.   Avvicinandosi la festa della Donna, connessa a una serie di riflessioni e dibattiti, mi è parso doveroso offrire un mio tributo a una sostenitrice dell’emancipazione femminile, come la marocchina Fatema.
  Assia visse tra la Francia e gli Stati Uniti, dove insegnò alla New York University. Nel 1955, prima tra le donne algerine, fu ammessa alla Scuola Normale Superiore di Sevres. Partecipò con le sue idee alla guerra di liberazione del suo Paese. Tra le sue opere di narrativa tradotte in italiano: Donne d’Algeri nei loro appartamenti e Lontano da Medina. Figlie di Ismaele, Bianco d’Algeria, Le notti di Strasburgo, Ombra sultana.
Particolarmente interessante Queste voci che mi assediano, in cui mostra un percorso che, attraverso l’uso della lingua, diviene percorso di vita e di esperienze umane.
 Fondamentale leggere oggi le opere di Assia Djebar per apprezzare il suo punto di vista libertario e anticonformista sulle esperienze delle donne e degli uomini che hanno intrecciato la loro vita con la storia, la dottrina e la politica dell’Islam, nel presente e nel passato. Una scrittrice attuale, dunque, alla luce di quanto stiamo vivendo.
I racconti di Donne d’Algeri nei loro appartamenti, sono uno splendido coro di voci delle donne algerine lungo l’arco di cent’anni da fine 1800 al 1960 circa, in cui la scrittrice si poneva “come una rabdomante” alla ricerca delle “parole del corpo velato”.
  Assia mescolava, come le donne del suo Paese, mistero e fascino. Era raffinata, consapevole del suo impegno, molto responsabile nello scrivere come nel parlare. I riconoscimenti che le sono sempre stati tributati da ogni parte a livello internazionale non mancarono di arrivare anche dal pubblico e dalla critica italiani, anche grazie all’opera di traduzione.
 Non solo scrittrice fu: multiforme la sua carriera (che spazia dai romanzi ai saggi alle poesie) che arriva al cinema e al teatro. Fu, infatti, regista e sceneggiatrice di cinema e teatro, ma anche docente di letteratura, studiosa delle dottrine e della storia islamica, anche se rifuggiva dallo stereotipo occidentale di “donna musulmana”.
  Il suo sguardo acuto e sensibile si calava nelle pieghe più intime del corpo e della mente femminili, fra tradizione e trasformazione, adesione e rivolta, guerra e pace. I suoi sono volti velati e finalmente scoperti che emergono nella loro lapidarietà. Sono facce fiere che appartengono a una gamma amplissima di sentimenti, immerse in reti quasi inestricabili. Una di queste è la famiglia, che diventa spesso una sorta di prigione dei sentimenti e dell’anima che, invece, vuol volare lontano e leggera.
  Le donne di Assia sono variegate: solitarie, solidali, aspre, pazienti, disperate perciò sfuggono a ogni semplicistica rappresentazione, che sia politicamente corretta o paternalisticamente pietosa. Sono figure che – per parafrasare l’autrice – abitano “nel cuore della notte algerina”, che è il buio dell’anima e del mondo, cioè l’ignoranza, la libertà negata, il sopruso.
 Assia lavorava moltissimo su sé stessa, com’è naturale che sia in un percorso di vita e arte che, per scelta, si intersecava continuamente. Rifletteva sulla sua tripla appartenenza linguistica, berbero-arabo-francese, contenuta in pagine davvero magistrali di molti suoi libri, tra i quali spicca Queste voci che mi assediano. Parlava della sua storia e di quella del suo popolo. Nel cuore della notte algerina è un libro ispirato dai terribili decenni fra anni Settanta e Ottanta del ‘900, in cui l’Algeria viene letteralmente dilaniata dal conflitto fra forze governative, formazioni islamiste e opposizione laica, mentre il perverso avvicendarsi di repressione militare e poliziesca, contestazione politica, rivolte e atti di terrorismo spingono il Paese in un precipizio interminabile di violenza e paura.
  A tutto questo, Assia decide di rispondere facendosi “novella Shahrazad dei giorni neri come l’inchiostro“ nel tentativo di raccontare le nuove donne d’Algeria in costante pericolo di essere uccise, mutilate, messe a tacere, costrette all’esilio o colpite negli affetti, ma decise a resistere e a parlare. Il libro si risolve in una serie di “dialoghi scambiati fra algerine in una lunghissima notte”.
  Il tema del buio è portante in quest’opera, come in altre. Ma spesso irrompe anche il giorno con i suoi orrori: è la realtà della violenza contro le donne libere, quelle che osano. Dalla storia vera di un’insegnante uccisa da terroristi soltanto perché insegnava francese a scuola, Assia trae uno dei suoi più grandi racconti, La donna fatta a pezzi, in cui una giovane professoressa, che insieme ai suoi studenti legge e interpreta un racconto delle Mille e una notte, viene decapitata da un commando islamista di fronte agli allievi. Ma la sua testa, spiccata dal corpo e posta con gesto macabro sulla cattedra, continua a parlare per tentar di concludere la lezione, sebbene cominci “a perdere fiato, come se le parole, soffocate dal sangue che inizia a colare, a scorrere sul legno del tavolo, vi si annegassero dentro.”
  Nel discorso tenuto per l’insediamento all’Accademia di Francia, pronunciato nel giugno 2006, lei – fra le pochissime donne elette e prima fra gli autori algerini a venire accolta fra gli “Immortali” della massima istituzione che difende e celebra la grandezza della lingua e della letteratura dei “colonizzatori” –, rendeva omaggio proprio a quegli intellettuali, donne e uomini algerini uccisi o perseguitati soltanto per aver scritto e insegnato in lingua francese nel suo Paese.
Come non ripensare a tutto questo, nel clima sociale e politico sempre più teso in cui viviamo in Europa, in Medioriente e in Africa?
  Ricordare e leggere Assia Djebar serve a comprendere la storia del pensiero laico e religioso dei paesi islamici. La nostra ignoranza di europei nei confronti di popoli a noi vicini o di coloro che ormai da tempo vivono tra di noi, è quasi abissale e pure pericolosa, com’ebbi a dire nel mio articolo su Fatema Mernissi.
 Opera complessa è Lontano da Medina, romanzo storico che è anche un insieme di racconti, di visioni, un intreccio fra fonti storiche e invenzione che muove dal momento della morte del Profeta Muhammad per raccontare gesti, passioni e pensieri delle donne intorno a lui. Intreccio di epica e lirica amorosa, di parola sacra e cronaca, di cori anonimi e discorsi quotidiani mescolati con la sapienza di una scrittrice che ha saputo attingere all’oralità e al canto femminili per toccare vertici di stile.
  Voglio ricordare una sua bellissima frase: Libertà è uscire di casa”. Così ripose a chi le chiese cosa fosse per lei la libertà. Lo disse ricordando la sua vicenda di giovane donna acculturata, francofona, figlia di un maestro di scuola che volle superare il dissenso e l’integralismo del suo Paese e presentare all’Occidente, attraverso i suoi romanzi, la condizione femminile algerina.
  Assia parte dalla sua infanzia, lo fa per infrangere “il silenzio”, simile a quello di tanti intellettuali durante i regimi imposti, in ogni parte del mondo. Lo fa pure per il piacere di scrivere. E’ evidente che, per iniziare, bisogna partire dal momento basilare della propria formazione. Scelse il francese perché più traducibile dell’arabo, il che avrebbe reso più aperto l’Occidente all’accoglienza dei suoi lavori. Ma la spinsero a scrivere altri due fattori: l’urgenza di rappresentare una vita tragica e appassionata e, soprattutto, l’illusione di lottare contro l’oblio e di fissare sulla carta gli eventi, perché non si disperdessero.
  I fatti vengono raccontati da una persona all’altra, passano di bocca in bocca, ma un giorno si dimenticano, si cancellano: da qui il desiderio di ricordarli anche se è un sogno, perché evidentemente, col tempo, tutto si cancella. E’ vero che nel corso di una vita, per trenta, quarant’anni un libro può restare e può, a volte, anche sopravvivere al suo autore, durando per altri cinquanta, cento anni o forse più. Bisogna dunque credere che la narrazione possa lottare contro l’oblio, perciò Assia rompe il silenzio e scrive.
  Scrivere è poi per lei una lotta contro l’arroganza del potere e infatti ebbe dei problemi in Algeria, anche se non si dipinse mai come un’eroina. Più eroine erano per lei le donne che, solo per aver detto buongiorno a qualcuno o per aver parlato con il vicino per la strada, avevano subìto pesanti persecuzioni o erano state uccise. Esisteva quindi una minaccia contro la libertà di pensiero, ma c’era anche il destino individuale di migliaia di donne, mai etichettate semplicisticamente come “musulmane”.
  Assia si sentiva protetta dai suoi lettori, i suoi libri si vendevano in molti Paesi e lei era consapevole del successo come anche della forte responsabilità che aveva nei riguardi di chi la leggeva. Sapeva che non poteva sbagliare in quello che scriveva. Quando le televisioni le chiedevano commenti su fatti politici o di cronaca, rispondeva che non era né una giornalista, né una specialista. E non perché non avesse il coraggio delle sue idee, ma perché temeva di sbagliare affermando quella che poteva essere la “sua verità” e di influenzare altre persone col suo pensiero. E’ vero che lo scrittore sa spesso vedere più lontano, ma Assia non credeva molto nell’intuizione.
  Voglio ricordare Bianco d’Algeria, romanzo che ha forti caratteri politici, in cui la Djebar usò un metodo di lavoro che si risolve nel porre domande al passato riguardo alla violenza e all’intolleranza. La guerra civile – nella sua visione – non è inerente al fatto di essere musulmani, infatti viene citato il periodo della romanità del Tardo-antico in cui S. Agostino fu in Algeria, epoca in cui Donatisti erano integralisti nelle loro idee, come lo sono i musulmani algerini. “Ogni volta che si è sicuri di possedere la verità da diventare violenti per affermarla, si compie un atto integralista, nel passato come nel presente e ovunque”. Possedere l’unica verità è una limitazione della libertà altrui.
  Mi riaggancio al tema della libertà individuale e, soprattutto femminile. Le donne, ai tempi in cui Assia era bambina, ma poi anche in seguito, in Algeria non potevano uscire liberamente dall’interno all’esterno. Ragazze a cui il cui padre o il fratello, a partire dai dieci anni, proibivano – e proibiscono – di uscire. Assia ricorda sua madre che non usciva di casa se non con il marito e sempre coperta da un velo. È ancor oggi questa la realtà dell’Afghanistan, dell’Arabia Saudita, meno dell’Iran in cui le donne sono velate, ma possono svolgere tutte le attività, anche quelle maschili.
  L’obbligo per le donne di restare in casa significa renderle prigioniere: come si impara a camminare per le strade se fino a trent’anni si è costrette a rimanere recluse? Questa è la prima forma di libertà, ossia di movimento. Poi c’è quella di ragionare con la propria testa, senza essere condizionate dalla società dei consumi e dagli orientamenti ideologici. Il suo insegnamento all’ateneo si risolveva nel far pensare con la propria testa. Lei stessa diede l’esempio, andando via dal suo Paese che non permetteva alle donne la libertà di movimento senza autorizzazione. Lasciò l’Università, la casa confortevole (aveva già trent’anni) e andò a Parigi a completare i suoi studi. Mantenne la nazionalità algerina, non recise del tutto il cordone ombelicale con la sua terra, della quale non si vergognò mai.
  Resta da chiedersi, ancora una volta, perché una donna come lei non abbia mai ricevuto il Nobel, sebbene più volte sia stata candidata.
                                          Prof.ssa Maria Concetta Preta