Un cold case italiano: l’uccisione di Lidia Macchi

io 2FEMMINICIDIO IERI E OGGI

di Maria Concetta Preta
Questa settimana invito i miei lettori a una riflessione sulla violenza estrema verso le donne, quella che assume il colore rosso sangue e che sconfina nel budello nero della morte. E’ un caso di femminicidio avvenuto circa trent’anni fa. Un cold case italiano riapertosi da poco. Il caso di Lidia Macchi.

                                         Un gelo al cuore in una notte di periferia          
Una notte di gennaio del 1987, nel profondo Nord. C’è una stradina di campagna che arriva fino a un bosco, dove convengono tossici e prostitute, e dove si abbandona la spazzatura col suo lezzo disumano: il marciume si ritrova in un boschetto non lungi dall’ospedale di Cittiglio, nel Varesotto.
  Un gelo al cuore. Una ragazza è uccisa proprio qui, con 29 coltellate alle spalle, lasciata al freddo, vicino alla sua Panda con le luci accese.
  L’assassino sarebbe – così abbiamo appreso in questi mesi – uno che la conosceva bene e che ha voluto arrestare il suo cammino. Un ex compagno di liceo della vittima, che si atteggiava e riscuoteva un certo successo con le ragazze per il suo fascino da intellettualoide incompreso. Tacerò il nome, tanto è sulla bocca di tutti. E userò il condizionale. S’è comunque meritata la sua prima pagina sui giornali nazionali un cinquantenne disoccupato che trent’anni fa avrebbe ucciso una ragazza che di lui si fidava, forse perché lui possedeva una perversione ambigua che conquista. Solo che non mi sta a cuore parlare di lui, quanto di lei, la vittima.
  Lei è Lidia Macchi, una bella ragazza di soli 21 anni: solare, dinamica, ciellina non bigotta, scout attivista e studentessa di Legge a Milano.
  Non si etichettò il caso con la parola (brutta, ma di effetto) “femminicidio”, il termine non esisteva. Se fosse accaduto oggi, lo sarebbe. La morte di Lidia è il risultato di una patologia, ma non cambia nulla. Femminicidio è solo una parola nuova, un neologismo per un crimine antico quanto la storia dell’uomo e, di conseguenza, della donna.
  Fece notizia allora il caso di Lidia, si agitò un polverone… poi, come spesso accade, la cortina di silenzio ha avvolto lei e la sua famiglia che ha smesso di urlare e ha voluto portare avanti la memoria della vittima in maniera privata, facendo solidarietà per tenerne accesa la fiaccola.
  Le indagini si arrestarono quasi subito, nessuno dei sospettati poteva essere l’omicida o, meglio, secondo il lessico moderno, il femminicida.
  E fu il test del DNA, molto rudimentale all’epoca, fatto per la prima volta in Italia, a non inchiodare il colpevole e a scagionare i sospettati. Un test fasullo perché evidentemente erano degradati o insufficienti i campioni prelevati.
  Dopo alcuni anni, davvero tanti, dovendo comunque trovare il colpevole – si sa che l’opinione pubblica va rassicurata – venne incriminato il c.d. killer del delitto “delle mani mozzate”, a cui venne imputata anche l’efferata uccisione di Lidia.
  Ora, quasi trent’anni dopo, spunterebbe il presunto omicida e non sono sofisticate indagini da RIS a svelarlo, ma una perizia grafologica su una misteriosa lettera scritta da chi avrebbe accoltellato alle spalle la ragazza, dopo averla violentata.
  E’ lo sfogo di un folle questa lettera-confessione, è un delirio pseudo-religioso in una vicenda in cui la religione c’entra davvero poco e che invece ci presenta uno scenario risaputo: lei vittima lui carnefice.
  Lei è sempre bella, è giovane, è vitale, è l’elemento attivo e dinamico che va fermato da un lui introverso, difficile, disturbato. E’ la forza bruta che blocca il movimento. Ma, soprattutto, c’è la patologia alla base del crimine. Quante volte l’abbiamo sentito? La perversione e il delirio, ma anche le fobie e la psiche malata che portano a spezzare la vita a un’innocente, rea di aver perduto la verginità, di essersi concessa a un atto che mima la ritualità sacra e che, come un agnello che da puro è diventato impuro, va sacrificata sull’altare della pazzia. Lo stesso che partorisce un’idea malata da mettere per iscritto per fermare sulla carta il ricordo e assegnarli il valore di un gesto, partorito da una mente invasata.
  Se dovesse essere lui l’assassino, sapete cosa mi verrebbe da pensare, oltre a tutto il resto? Che avrebbe potuto fare il professore … e chi si sarebbe accorto di niente?   Il presunto assassino è, infatti, laureato in Filosofia e ama molto la lettura, si ritiene un intellettuale disoccupato e vive alle spalle della madre. Sarebbe salito in cattedra e avrebbe insegnato ai nostri figli cos’è il bene e cos’è il male, parafrasando Kant ed Hegel, Socrate e Platone … che orrore!
  Non so se sia stato davvero lui a uccidere Lidia, ne’ ci fa piacere che dietro le sbarre ci sia l’ennesimo “femminicida” arrivato nel 2016 direttamente dal passato. Per me  costui è un Signor Nessuno. A me dispiace che anche trent’anni fa si moriva come si muore oggi e che la catena di vittime al femminile sembra essere infinita. A me dispiace di Lidia… e di tutte le altre, nel passato come nel presente.
  Però, in tutto ciò, c’è una cosa che mi fa piacere: che questa vicenda sia stata dissotterrata dalla polvere degli archivi e che sia bastata una pura e semplice coincidenza a determinare la riapertura del caso che giaceva sotto la coltre della dimenticanza. Un cold case all’italiana.
  E’ bastato il passaggio in tv della poesia visionaria: “Lettera ad un’amica” (che titolo allusivo e giocato sulla perversione!) a far tornare a galla un ricordo e, fortuitamente, s’è riaperta l’indagine, direttamente dal 1987 quando di violenza di genere proprio non si parlava così estesamente come oggi.
  Il famoso caso Lidia Macchi. Io stessa, ai tempi studentessa universitaria, stentavo a ricordarmene. E’ stata per me questa notizia, come per le donne della mia generazione, un tuffo nel passato. Mi sono rivista a vent’anni, ho ripensato a come vivevano noi ragazze all’epoca, di come ci vestivamo, parlavamo, ci rapportavamo all’altro sesso. Tutte come Lidia.
  E ho pensato, ancora una volta, che bastava dare un po’ di retta in più a uno studente brillante e acculturato, forse un po’ stralunato e con qualche leggera introversione, per finire stese a terra in una gelida notte d’inverno. O magari poteva essere un insospettabile padre di famiglia o il nostro farmacista o il cugino di primo grado… o il compagno che c’eravamo scelte. Poteva essere allora ciò che è ora. Nulla è cambiato, solo la parola: non omicidio ma femminicidio.
  Un pugno nello stomaco questa brutta storia che torna prepotente e mi induce a riflettere. E’ un ennesimo monito che lancio alle donne, specie le più giovani: mai fidarsi troppo dell’altro, specie se t’ha messo gli occhi addosso e li scolla più.

  Perché avrà subìto lo stalking, la giovane e indifesa Lidia, ma neanche lo sapeva e neanche esisteva allora questo termine che ora va tanto di moda. Lei dava molta importanza alla parola che, nella sua Weltanschaung, avrebbe potuto cambiare il mondo e far migliorare la gente. Avrà accolto nella sua auto il ragazzo, chissà quanto avranno parlato prima che gli saltasse addosso! Lei parlava e sperava, lui agiva e troncava.

  No, la Parola non è poi così onnipotente e nulla può contro il Male. Ma, nonostante ciò, noi dobbiamo continuare a crederci e parlare di noi e pensare che una, dieci, mille Lidia non potranno arrestare il cammino verso il riscatto e la speranza in un mondo nuovo fatto a misura di donna.
  Prof.ssa Maria Concetta Preta, autrice di “Rosaria detta Priscilla, e le altre- Storie di violenza e femmincidio” Meligrana editore, 2015io 2