Recensione di un film di T. Preta: “Malarazza”

Recensione della prof.ssa T.  Preta

Il FILM “MALARAZZA” del regista Virgilio, che sarà ospite alla Notte Nazionale del Liceo Classico Morelli di Vibo il 17 gennaio 2020

  

La logica della violenza esordisce nella matta bestialità di Tommaso detto Malarazza, abituato al lessico da macho, alimentato dal mito dell’intoccabilita’.  Ma c’è un altro modo di essere ed esistere nella Catania dei bassifondi: è quello di Franco, il fratello transessuale, che non cede alla “legge della famiglia” e vive secondo natura.

 



Rosaria, donna di Tommaso, è schiva, incline al mutismo, da buona concubina tollera i maltrattamenti verbali prim’ancora che fisici, si rassegna per sé, ma non per il figlio Antonio.

Il linguaggio dei boss è quello dell’onore e segue l’evoluzione della mafia, in un contrasto tra vecchio e nuovo mondo.

Antonio, inadatto al ruolo di successore, è fonte di vergogna per il padre, il cui tossire raschiante notturno, unito allo stupro coniugale, è uno dei suoni familiari più odiosi.

Madre e figlio tentano la fuga, propulsione al futuro, fatta senza empiti, ma per sfuggire all’Ananke. E dove andare se non dall’unica persona, ostracizzata perché diversa?

Il ragazzo è inserito nella scuola e la madre lavora in una lavanderia, ma viene mal tollerata per l’abbandono del tetto coniugale.

Scuola accoglie e non discrimina, luogo di lavoro sì. Tutti sanno della fuga.

Il boss Malarazza si riprende Antonio, lo segrega per educarlo a modo suo perché non porti disonore, come fece il prostituto di casa.

È Franco a consigliare Rosaria di andarsene lontano dal ghenos maledetto, mentre lei cederebbe addirittura a fare la donna di strada, visto che è stata licenziata. In questo quartiere più ci resti più ti mangiano, sentenzia con antica saggezza da marciapiede Franco.

Il ragazzo vorrebbe rivedere la madre, ma deve cedere alla paideia paterna, fatta di minacce, botte, verbalita’ pedestre, in cui ‘u rispettu è a prima cosa.

È Sicilia, Calabria, Sud. Copione che si ripete, immoto.

Il ragazzo rivede la madre, la ribelle, il cuor gli si allarga.

Il prostituto è il recupero della maschera pasoliniana, è agnello sacrificale del rito sanguinario della vendetta del boss che lo riduce a brandelli per punirlo dell’asilo offerto a Rosaria.

Il carusu siculo è altro personaggio chiave, dedito allo spaccio sul sottofondo del refrain neomelodico foraggiato dalla camorra.

Rosaria tenta il riscatto del figlio in una terra maliditta ma deve pur sopravvivere.

Tra i vicoli spenti di una Catania popolana e rattrappita, ci sono i locali equivoci dove i transessuali ballano avvolti dalla saudade siculo-brasiliana. Sono marionette di una masquerade da bossa nova. Tra queste non-persone si districa Franco.

  ‘u capisti? Ritornello della coercizione, che usa un linguaggio primitivo, scabro ed essenziale. Si agisce piuttosto che parlare.

Arisa offre la sua voce mediterranea a sottolineare alcuni passaggi significativi che sono poi quelli dedicati a Franco.

Il vizio segreto della provincia, il totem innalzato di nascosto è però l’amore tra due uomini. Amore alla greca, alchimia di teste e corpi di egual natura, omosessualità che è intesa profonda come se il vero amore fosse questo e non quello verso la donna, sottomessa schiava e mero veicolo di propagazione della stirpe.

La vita notturna è spaccio, intimidazione, racket, inizia qui per Antonio la sua iniziazione alla vita da carusu, degenerazione del kouros, come se la fortitudo e l’arete’ classica si misurassero con il mito del mafioso, in una svalutazione etimologica ancor prima che ideologica dei lemmi greci.

Iniziazione alla vita da carusu non può non passare se non attraverso il sesso. La segregazione di Antonio è una krypteia rovesciata al suono dei neo-inni della mafia moderna, tra note partenopee, denaro facile, beveraggi e sortite notturne. È il buio la sua cifra, proprio com’è nel significato del verbo greco krypto, che è tipico dei ladri.

E il ragazzo infatti viene rapito dal padre e il suo ratto coincide con l’educazione alla mafia. Antonio marina la scuola, unico presidio di legalità in una realtà sfilacciata, in un sottobosco dalle trame dove la strada offre l’antidoto alla fatica, attraverso l’uso della forza.

Dal mare della Magna Grecia, miti non ne nascono più, ma vi si stagliano, impastoiati in giacchette azzimate alla moda, i boss. I vecchi e i giovani pirandelliani, il mondo barbaro che si raffronta.

Sporcarsi le mani e prendere presunzione. Odiare gli sprechi… le sentenze di Pieru u porcu si confondono col muggire delle onde. La sprezzanza di Malarazza tesa all’invettiva, il cui apice è l’uso di frocio, porta alla sua eliminazione. Tommaso Malarazza verrà inghiottito da un attonito ma sempre vorace Poseidone.

Il funerale avviene sotto la pioggia, come se Urano piangesse per uno dei

suoi tanti cattivi figli, prole selvaggia diseducata dagli stessi dei, matadori loro stessi che esigono sangue e carne per alimentarsi.

Si apre l’indagine, viene convocata Rosaria.

Facciamo che il passato è passato, dice la sospettata da un commissario simbolo dell’inanita’ cui sono portate le forze dell’ordine.

U Porcu avvicina Rosaria che ha fatto il suo dovere stando in silenzio, ma davanti alle sue esplicite profferte, l’eroina si rifiuta.

Il sudiciume esplicito dei luoghi, avvolti in una notte senza fine, come se la città vivesse di buio e in esso vi fosse un prolungamento del vivere occulto dei carusi.

Antonio rivela che uno dei trans era suo zio, pudicamente, e desta stupore tra le teste di minchia cui si accompagna. Le stesse da cui il Boss don Pietro esige rispetto.

Gli scugnizzi catanesi sono alla sua mercé, come la tratta dei neoschiavi, i trans. Tutti inginocchiati a lui, pronti a travagliare per lui. È Zeus sul trono, tutti ai suoi piedi.

E viene designato da lui il successore di Tommaso, proprio Antonio che deve far volare alto il nomen della sua gens:l’adozione è avvenuta.

La soluzione potrebbe essere andar via al Nord. Franco avvicina il nipote, ne depreca la metamorfosi e lo fa davanti al mare, eterno testimone della nostra storia. E lì davanti narra una storia favolosa, un mito che spiega meglio di tutto la realtà. Non c è una colpa a nascere dove si è nati, sono le scelte che si fanno a dire se il luogo è sbagliato o no.

La movida del carusu vive però non di miti antichi, ma di quelli moderni: ragazze in vetrina in discoteche, droga e sballo. Il tutto condito con il sottofondo della ripetitiva canzone neomelodica, che usa il lessico della mafia, che educa pure attraverso la musica.

E prosegue con le pistole l’ascesa di Antonio, che deve dimostrare di ‘valere’ pur tra paure e contorcimenti. Finché si tocca lo Spannung e Rosaria decide di sottrarlo alla banda di carusi.

Nella mafia solo le donne, le madri possono fare la differenza, per amore dei figli, per sottrarli alla morte. L’amore vero tende alla vita e per vivere bisogna fuggire dal Sud.

Franco non può emanciparsi ma chi se lo prende fuori da lì? Ricomincino pure per lui madre e figlio, di nuovo uniti da un legame indissolubile.

La sortita sarà, come nel migliore dei copioni, di notte. Riuscirà Antonio a fuggire o sarà intercettato?

Potrà il boss del quartiere accettare il suo sgarro?

Il mare, cupo e indifferente, assiste al sacrificio che diventa mattanza. Il  despota tarpa le ali di Antonio e imprime staticità al suo volo da Icaro.

Franco sputa in faccia il suo protettore e amante, davanti a tutti, catarticamente.

E davanti al mare una madre piange, ipostasi di tutte le Ecube del nostro maledetto Sud.

Prof.ssa Maria Concetta Preta – docente di Latino e Greco