School writing della prof.ssa T. Preta: Ineffabilità della parola in Dante…e Montale

LaPresseTorino, Reggia di Venaria 16-03-2011AttualitàMostra “La bella Italia”. Le opere in esposizioneNella foto: La Divina Commedia illumina Firenze di Michelino

Gentili lettori del mio blog, per proseguire la maratona dantesca, ecco una relazione della mia allieva Gemma su Dante poeta del colore e dell’ineffabile e un creativo confronto con Montale

Come dire: dal Medioevo al 900! Da poeta a poeta, – Due miti a confronto per noi.

Prof.ssa Titti Preta

 

 

DA DANTE A MONTALE – COLORISMO POETICO ED INEFFABILITÀ DELLA PAROLA

 

L’Oltremondo della Comoedia dantesca testimonia, con la tripartizione dei tre regni – ad ognuno dei quali è dedicata una cantica e che condurranno il Sommo Poeta alla visione di Dio attraverso un itinerarium mentis – l’avvenuta acquisizione della cultura teologica medievale cattolica. Tale tricotomia è anche cromatica, dal momento che l’Inferno è descritto come avvolto nel buio, il Purgatorio dispone di colori terrestri avvalendosi dell’alternarsi di giorno e notte, il Paradiso è caratterizzato dall’annullamento dei colori nel crescendo della luminosità. Pertanto i colori appartengono al mondo finito, mentre la dimensione eterna è caratterizzata dagli estremi buio-luce, dalla dicotomia tra il peccato e la purificazione dell’anima di Dante e dell’intera umanità.

Spesse volte il colore diventa veicolo per comunicare qualcosa di più profondo ed esso, il colore, viene indicato attraverso un riferimento oggettuale.

Nella dimensione oscura e profonda e nebulosa (canto IV, vv. 10-12), quel loco d’ogne luce muto (canto V, v.28), Dante descrive il colore del luogo delle Malebolge, in cui viene condannata la frode, nel canto XVIII (vv.1-3), come pietra di color ferrigno: questo riferimento all’oggetto di ferro rimanda, oltre al piano cromatico, all’idea di durezza sul piano sensoriale. Nel canto successivo si attribuisce alla pietra la colorazione livida, che aggiunge una connotazione di sofferenza.

Questo rimando permane anche nella seconda cantica, dove l’azzurro cielo è richiamato tramite il zaffiro orientale (dolce color d’oriental zaffiro, canto I, vv. 13-15). Invero, già i lapidari medievali riferivano il colore di questa pietra preziosa a quello del cielo. Nel penultimo canto del Purgatorio, trovandosi nel Paradiso Terrestre Dante per indicare la tinta dei fiori sceglie una straordinaria area cromatica di mezzo, tra il rosso della rosa e il viola dell’omonimo fiore, che neppure è porpora, poiché così non si esprime linguisticamente il Poeta: il colore del sangue del Cristo che ridiede vita a quella pianta con la propria morte.

Nella terza cantica, come un percorso che dal colore cupo, sfumando via via verso il tenue nel Purgatorio, approda poi nello smarrimento del colore e nell’inizio di un viaggio di κάϑαρσις nel Paradiso, c’è il trionfo della luce.

Nel Convivio (III, XIV, 5) Dante scrive che «[…] l’usanza de’ filosofi è di chiamare lo Cielo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare ‘raggio’, in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare ‘splendore’, in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso.»

La luce è la materia predominante nel Paradiso perché, in un lungo viaggio di conversione partendo dal peccato, lo stato di grazia e purificazione non può esser rappresentato che dalla luminosita e perché, insieme all’armonia, è l’elemento confacente a rappresentare il regno di Dio. Nella cultura medievale la luce è manifestazione sensibile della presenza divina, di colui che tutto move e la cui gloria per l’universo penetra e risplende (Pd, canto I, vv. 2 e ss.); più ci si avvicina alla conoscenza di Dio, più il bagliore, cui Dante deve abituarsi, aumenta fino alla completa visione di Lui, la pien luce. In questa cantica tutto, dunque, è avvolto in un alone di luce. Lo sono anche i beati e la stessa Beatrice, che nel canto III viene definita sol per la sua bellezza e luminosita che aumenta in una parabola positiva che porta il Poeta all’incapacità di descriverla.

Dunque, il motivo della luce si lega strettamente al tema dell’ineffabilità, quella tensione espressiva a descrivere l’indescrivibile con cui si fronteggia Dante, per cui la parola sfiora l’oblio.

Questo tema, infatti, è proprio del Paradiso poiché, mentre nelle cantiche precedenti l’immediata comunicabilità veniva raggiunta, è impossibile la traduzione in poesia di questa esperienza metafisica e trascendente. Nel canto di apertura, al verso 70, di questa cantica si afferma <<Trasumar significar per verba non si poria>> ad indicare la sproporzione tra vis intellettiva e verbum oris. Ibidem ai vv. 4-9 viene maggiormente evidenziata lo scompenso mnemonico-espressivo: <<vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire>>; la dimensione dell’oblio è dunque un elemento costitutivo della visione mistica.

L’ineffabilità accompagna il poeta fino al canto XXXIII: in un rapporto di diretta proporzionalità, più ci eleva, più le parole si contraggono per la visione divina fino a dissolversi.

Per esprimere la difficoltà nel riportare tale esperienza e nel rimembrare la visione divina utilizza due similitudini, l’una circoscritta alla dimensione onirica – poiché tradurre in parole il ricordo di un sogno che ha provocato un’emozione è compito arduo – l’altra legata al mondo naturale: è simile alla neve che, sciogliendosi, perde la propria forma (canto XXXIII, vv. 58-64).

Dunque, il fine non è rappresentare attraverso la parola poetica il paradiso nella sua verità – così esso cesserebbe di fruire della natura trascendentale, misteriosa – ma di farne intravedere la beatitudine e l’eternità, di presentarlo come simulacro dell’anima.

L’ineffabilità della parola è un topos che attraversa la letteratura latina pre-dantesca – in Catullo, che ritiene difficile districarsi in un animo in cui coesistono il sentimento d’amore e odio nei confronti di Lesbia, una situazione che non trova espressione concreta (carme LXXXV) – e la letteratura italiana.

Tale tema riappare anche nell’Addio ai monti dei Promessi Sposi (cap. VII), un monologo interiore di Lucia, un addio pronunciato nel silenzio, poiché le emozioni sono così profonde e intime che non trovano espressione concreta.

Un colloquio con il proprio animo e la coscienza, come quello presente ne Le ricordanze (1829). Anche il male di vivere del Montale assume i caratteri dell’incomunicabilità: la poesia non è più in grado di interpretare in chiave univoca la realtà in seguito alla scissione dell’io, che non può essere espresso tramite una parola assoluta, l’unica parola possibile è negativa << Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo>> (Non chiederci la parola, 1923). Ibidem lo scalcinato muro su cui si proietta l’ombra dell’uomo – cui si rivolge Montale – la morte, il mistero della vita, rappresenta il limite invalicabile per vedere oltre, l’impossibilita di comunicare. Con questa lirica l’autore invita l’uomo a meditare sulla crisi delle certezze nel mondo contemporaneo, che è inesprimibile poiché non vi è più una parola che risplenda come un croco perduto in mezzo ad un polveroso prato. Si ritraccia anche qui un colorismo poetico, nel contrasto tra il giallo del fiore dello zafferano e il colore desolante del prato, a rappresentare la contemporaneità.

Per esprimere la realtà e la scissione dell’io non rimane che qualche storta sillaba e secca come un ramo.

 

SCOLERI GEMMA – alunna della classe 5 C